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La scomparsa di Hugo Blanco Era una leggenda non solo in Perù, ma in tutta l'America Latina. La sua battaglia contro ogni forma di oppressione è stata interrotta solo dalla morte, avvenuta il 25 giugno. Hugo Blanco Galdós era nato a Cuzco nel 1934 e fin da giovanissimo, come raccontava lui stesso, si era scontrato con le condizioni di semischiavitù in cui vivevano gli indigeni della zona: uno di loro era stato marchiato a fuoco sulle natiche con le iniziali del proprietario terriero. Nel 1954 intraprese gli studi di agronomia a La Plata, in Argentina, ma lasciò ben presto l'Università per impegnarsi nelle lotte sindacali a fianco del movimento trotzkista. Tornato in patria, trovò lavoro in una fabbrica di Lima e, in occasione della visita dell'allora presidente Usa Nixon in Perù, fu tra i promotori di una forte e combattiva manifestazione di protesta. La repressione però non tardò ad arrivare e dovette rifugiarsi nella zona di Cuzco. Qui, all'inizio degli anni Sessanta, guidò una rivolta dei contadini quechua (di cui conosceva la lingua) che, organizzati nella Federación Departamental de Campesinos del Cuzco, occuparono le terre dei latifondisti e formarono un autogoverno. In realtà, come affermò molti anni più tardi in un'intervista, non si sentiva un dirigente: "Io non credo nei leader. Non mi considero tale e non lo sono mai stato. Ho sempre rispettato la concezione indigena secondo la quale è la comunità a comandare. Anche quando abbiamo preso le armi, è stata la massa che ha deciso l'autodifesa". Proprio quando era a capo della colonna di autodifesa Brigada Remigio Huamán (dal nome di un contadino vittima della repressione), nel 1963 uno scontro con la polizia giunta a difendere il latifondo portò alla morte di tre agenti. Blanco venne arrestato e sfuggì alla pena di morte solo grazie a una campagna internazionale in suo favore che raccolse migliaia di adesioni, tra cui quelle di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Condannato a 25 anni rimase in carcere fino al 1970, quando venne amnistiato dal presidente Juan Velasco Alvarado. Dovette però partire per l'esilio, prima in Messico, poi in Argentina e infine in Cile. Nel Cile di Allende collaborò con il movimento dei cordones industriales. Il golpe di Pinochet lo costrinse però a rifugiarsi nell'ambasciata svedese, da dove raggiunse il paese scandinavo. Riuscito a ritornare in Perù, si presentò candidato all'Assemblea Costituente nelle liste del Focep, el Frente Obrero, Campesino, Estudiantil y Popular, utilizzando gli spazi televisivi concessi per la campagna elettorale per fare appello allo sciopero generale indetto dalla Cgtp. Venne eletto alla Costituente e in seguito divenne deputato al Congresso per il Partido Revolucionario de los Trabajadores Peruanos e senatore con Izquierda Unida, mandato interrotto nel 1992 a causa dell'autogolpe di Alberto Fujimori. Di nuovo in esilio visse in Messico, nel 1994, lo scoppio dell'insurrezione zapatista, che lo portò a riflettere sull'importante ruolo delle comunità indigene. Un ruolo che assumerà ancor più rilevanza ai suoi occhi di fronte alle minacce posta dal cambiamento climatico e alla battaglia per la difesa dell'ecosistema. "Il furto dell'acqua e della vita, l'ampliamento dell'attività mineraria a cielo aperto nella sierra, l'agroindustria sulla costa, l'estrazione del petrolio nella foresta... il principale attacco delle transnazionali ora è il riscaldamento globale e questo obbliga a lottare per la sopravvivenza, anche al disopra della lotta di classe, perché c'è un attacco contro l'umanità e contro la natura". L'interesse per questi temi gli ha valso l'appellativo di "Che ecosocialista". "Un giornalista ha detto che prima lottavo per la terra con la minuscola e ora lotto per la Terra con la maiuscola. In quechua non abbiamo questo problema perché sono due parole diverse. La terra coltivabile è la jallpa e il pianeta Terra è la Pachamama". Alla sua militanza nelle lotte sociali, mai venuta meno, Blanco ha sempre unito l'attività di pubblicista, in particolare con la rivista Lucha Indígena, da lui fondata e diretta per quasi quindici anni. Dei suoi vari libri, oltre a ¡Tierra o Muerte!, pubblicato negli anni Settanta e tradotto poi in diverse lingue, va ricordato Nosotros los Indios, recentemente rieditato. In una edizione anteriore di quest'opera Eduado Galeano scriveva: "Hugo Blanco ha percorso il suo paese avanti e indietro, dalle sierras innevate alla costa arida, passando per la foresta pluviale dove i nativi sono cacciati come belve. E dove passava aiutava a far sì che i caduti si rialzassero e quelli che erano stati zittiti parlassero. "Le autorità lo accusarono di essere un terrorista. Avevano ragione. Seminava il terrore tra i padroni della terra e della gente. "Dormì sotto le stelle e in celle occupate dai topi. Fece quattordici scioperi della fame. In uno di questi, quando ormai non ce la faceva più, il ministro dell'Interno fece un gesto simpatico e gli mandò in regalo una bara. "Più di una volta il procuratore chiese la pena di morte e più di una volta venne pubblicata la notizia che Hugo era morto. E quando un trapano gli aprì il cranio, perché una vena era scoppiata, Hugo si svegliò con il terrore che i chirurghi gli avessero cambiato le idee. "Invece no. Continuava ad essere, con il cranio cucito, lo stesso Hugo di sempre. Noi suoi amici eravamo sicuri che nessun trapianto di idee avrebbe funzionato. Però temevamo che Hugo si risvegliasse saggio. "Ed è chiaro: continua ad essere quel meraviglioso pazzo che decise di essere indio, anche se non lo era, e finì per essere il più indio di tutti". Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere quel meraviglioso pazzo tanti anni fa, nella sua povera abitazione alla periferia di Santiago, negli ultimi giorni della presidenza di Salvador Allende. E di lui conserva un ricordo indelebile: quello di una persona amabile, sorridente, che raccontava con semplicità le sue straordinarie imprese contro ogni ingiustizia. (Nicoletta Manuzzato) (26/6/2023)
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cura di Nicoletta Manuzzato |