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Mafalda la contestataria rimane orfana  (1/10/2020)

Negli Usa sterilizzazione forzata a migranti latinoamericane  (22/9/2020)

Luis Sepúlveda, la voce dell'esilio  (17/4/2020)

8 marzo, l'onda femminista in America Latina  (9/3/2020)

America Latina 2020, un panorama contraddittorio  (4/1/2020)

 

Argentina

Argentina, approvata la legalizzazione dell'aborto  (30/12/2020)

Per la destra il virus è "inesistente"  (24/6/2020)

 

Bolivia

"Abbiamo recuperato la democrazia"  (24/10/2020)

Il Grupo de Puebla contro il governo golpista  (16/6/2020)

 

Brasile

Il Pt chiede l'impeachment di Bolsonaro  (22/5/2020)

 

Cile

Archiviata la Costituzione di Pinochet  (26/10/2020)

Un paese in lutto  (23/6/2020)

 

Colombia

Alvaro Uribe agli arresti domiciliari  (2/9/2020)

In arrivo istruttori militari Usa  (29/5/2020)

 

Cuba

Attentato all'ambasciata cubana a Washington  (14/5/2020)

Solidarietà su scala planetaria  (8/4/2020)

 

Ecuador

Tra pandemia e lawfare  (13/4/2020)

 

El Salvador

Il presidente cool che parla con Dio  (12/2/2020)

 

Guatemala

Migliaia in piazza contro il Pacto de Corruptos  (30/11/2020)

 

Guyana

Vittoria della sinistra alle elezioni  (3/8/2020)

 

Haiti

Dieci anni fa il terremoto  (30/1/2020)

 

Messico

Proteste a Guadalajara contro la violenza poliziesca  (19/6/2020)

 

Nicaragua

La scomparsa di Ernesto Cardenal  (2/3/2020)

 

Perù

Rivolta popolare in difesa della democrazia  (17/11/2020)

Si moltiplicano contagi e casi di corruzione  (23/6/2020)

Apra e fujimorismo i grandi sconfitti nelle legislative  (7/2/2020)

 

Puerto Rico

La morte dell'indipendentista Rafael Cancel  (3/3/2020)

 

Repubblica Dominicana

Finisce il lungo dominio del Pld  (7/7/2020)

 

Uruguay

Verso la restaurazione  (9/7/2020)

 

Venezuela

Netta vittoria del Gran Polo Patriótico  (13/12/2020)

Gruppi mercenari tentano di sbarcare in Venezuela  (19/5/2020)

Contro il Venezuela i ricatti di Washington  (6/4/2020)

Un'Asamblea Nacional con due presidenti  (7/1/2020)

 


Argentina, approvata la legalizzazione dell'aborto

Giornata storica in Argentina: dopo anni di battaglie e di mobilitazione dei movimenti femministi, il Congresso ha approvato la legalizzazione dell'aborto. L'interruzione volontaria della gravidanza esce finalmente dalla clandestinità: sarà consentita fino alla quattordicesima settimana di gestazione e ne sarà garantita la copertura integrale e gratuita nel sistema sanitario. Potranno ricorrervi, senza chiedere alcuna autorizzazione, anche le ragazze a partire dai sedici anni, mentre sotto quella età sarà necessaria l'assistenza di almeno uno dei genitori o del rappresentante legale. È prevista l'obiezione di coscienza per gli operatori sanitari, ma gli ospedali dove non vi siano medici disposti all'intervento dovranno trovare altre strutture in grado di garantirlo.

Il sì del Senato (la Camera aveva già votato a favore l'11 dicembre) è venuto all'alba del 30 dicembre dopo ore di dibattito ed è stato accolto con emozione dalle tantissime donne che a lungo avevano atteso di fronte al Parlamento e nelle vie adiacenti. Un solo grido si è propagato tra la folla che sventolava i fazzoletti verdi, il colore della campagna: ¡Lo logramos! Delusione si leggeva invece sui volti degli oppositori, anch'essi presenti in piazza con bandiere celesti, croci, rosari, foto di ecografie e un grande feto di cartone.

Già nel 2018 sembrava che l'obiettivo potesse essere raggiunto: una proposta di legalizzazione aveva ricevuto il via libera della Camera, ma era stata poi bocciata dai senatori che avevano ceduto alle forti pressioni dei gruppi religiosi e conservatori. L'anno dopo, sulla scia delle lotte femministe, Alberto Fernández ha ripreso il tema nel suo programma elettorale e, una volta iniziato il mandato, ha inviato al Congresso il testo ora approvato grazie a un consenso trasversale. "Oggi siamo una società che amplia i diritti delle donne e garantisce la salute pubblica", ha commentato il presidente in Twitter. Anche la vicepresidente Cristina Fernández, un tempo contraria, ha dato un importante contributo a questa conquista.

Prima di questa legge, l'interruzione volontaria della gravidanza era permessa solo in caso di stupro o di pericolo per la vita della madre. Negli altri casi le donne erano costrette a ricorrere all'aborto clandestino, rischiando il carcere o addirittura la vita: dal 1983, anno del ritorno della democrazia, oltre tremila sono state le vittime di interventi realizzati in condizioni proibitive. Un destino riservato alle donne più povere: per chi poteva permetterselo non mancavano le cliniche private pronte a offrire sicurezza e segretezza.

La vittoria argentina costituisce un importante passo avanti nella regione. Attualmente, tra i paesi latinoamericani, solo Cuba e Uruguay garantiscono la libera determinazione delle donne. In Messico l'interruzione volontaria della gravidanza è consentita a Città del Messico e nello Stato di Oaxaca, mentre nel resto del territorio nazionale è perseguita penalmente.

30/12/2020


Venezuela, netta vittoria del Gran Polo Patriótico

"Ancora una volta hanno vinto la Costituzione e la pace". Con queste parole il presidente Maduro ha salutato la netta vittoria del Gran Polo Patriótico (la coalizione formata dal Psuv e da altri movimenti progressisti) nelle legislative del 6 dicembre. Il Gpp ha superato il 69% di voti, conquistando 253 seggi su 277: riprende così il controllo dell'Asamblea Nacional ribaltando il risultato del 2015. L'alleanza dei vecchi partiti tradizionali Acción Democrática e Copei, con l'aggiunta di Cambiemos, Avanzada Progresista, El Cambio, ha ottenuto meno del 19%, mentre l'altro raggruppamento d'opposizione, composto da Venezuela Unida, Primero Venezuela e Voluntad Popular Activistas (frazione di Voluntad Popular), poco più del 4%. Il Partido Comunista de Venezuela ha raggiunto il 2,7%. Percentuali minori per tutte le altre liste (erano iscritte ben 107 organizzazioni politiche, in gran parte antichaviste).

Sostanzialmente bassa l'affluenza alle urne (31%): questo dato sarà sicuramente sfruttato dalla propaganda dell'autoproclamato presidente Juan Guaidó, sostenuto da Stati Uniti, Unione Europea e Grupo de Lima. Guaidó aveva invitato a disertare le urne definendo il voto "una frode". Tra quanti si erano schierati per il boicottaggio anche l'ex candidato presidenziale Capriles Radonski, che in un primo tempo si era detto pronto a partecipare alle elezioni. A fargli cambiare opinione la decisione di Bruxelles, che adducendo motivi pretestuosi aveva respinto l'invito a inviare una delegazione di osservatori.

Nonostante il rifiuto europeo, oltre trecento osservatori internazionali hanno seguito il 6 dicembre il processo elettorale e hanno potuto testimoniare la correttezza e la validità del voto. Tra questi l'ex senatrice colombiana Piedad Córdoba, la parlamentare salvadoregna Nidia Díaz, tre ex presidenti (il paraguayano Lugo, il boliviano Morales, l'ecuadoriano Correa) e l'ex primo ministro spagnolo Rodríguez Zapatero. Quest'ultimo, in un intervento presso la tv venezuelana, ha invitato l'Unione Europea a rivedere la sua politica nei confronti del governo Maduro, visto il fallimento della strategia delle sanzioni. La fine del blocco economico al Venezuela è stata chiesta anche dal Grupo de Puebla (di cui lo stesso Zapatero fa parte).

Va detto che se le sanzioni non sono riuscite a piegare la Rivoluzione Bolivariana, comportano però costi pesantissimi per il paese: le entrate petrolifere sono scese del 99%, il pil è crollato e la disoccupazione è aumentata. La vita quotidiana è messa a dura prova dalle continue interruzioni nell'erogazione del servizio idrico, dai ripetuti blackout, dalla difficoltà nei rifornimenti di benzina. Il blocco pone inoltre ostacoli all'importazione di alimenti e di forniture mediche, particolarmente importanti queste ultime in un periodo di pandemia. La diffusione del coronavirus è stata contenuta grazie al capillare controllo territoriale: poco più di centomila i casi accertati, quasi mille le persone decedute. Ma i problemi economici rischiano di ripercuotersi sui programmi sociali come i Comités Locales de Suministro y Producción (Clap), che distribuiscono prodotti alimentari a sette milioni di famiglie, e la Gran Misión Vivienda Venezuela, che alla fine dello scorso anno aveva assegnato tre milioni di alloggi popolari.

Scontata la reazione di Washington al successo del Gran Polo Patriótico. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha definito le elezioni "una farsa" e ha dichiarato il suo appoggio alla consulta popular convocata da Guaidó, dal 7 al 12 dicembre (in gran parte online) per chiedere "la fine dell'usurpazione della presidenza da parte di Nicolás Maduro". Con questa iniziativa l'autoproclamato ha cercato di rilanciare la sua popolarità, in forte declino, vantando una vasta adesione di cui peraltro non esiste alcuna prova. Quanto all'Organización de los Estados Americanos, in una risoluzione approvata il 9 dicembre (con i voti contrari di Messico e Bolivia) afferma che le elezioni venezuelane non sono state "né libere né giuste". Un documento apertamente interventista, come ha affermato la rappresentante messicana Luz Elena Baños. Una risoluzione assai simile, che condannava la rielezione di Evo Morales, fornì la giustificazione per il colpo di Stato in Bolivia del novembre 2019.

13/12/2020


Guatemala, migliaia in piazza contro il Pacto de Corruptos

Nel 2015 vaste mobilitazioni contro la corrotta classe politica al potere portarono alle dimissioni, e poi all'arresto, del presidente Pérez Molina. Cinque anni dopo la protesta popolare è tornata protagonista con le "giornate di novembre", scatenate dall'approvazione da parte del Congresso del bilancio preventivo per il 2021. Un bilancio che, pur aumentando l'indebitamento pubblico, era volto in gran parte a beneficiare il settore privato. Non venivano incrementati invece gli esigui finanziamenti alla sanità, all'istruzione, ai programmi sociali in un paese in cui circa il 60% della popolazione vive in condizioni di povertà. E addirittura venivano ridotti i fondi destinati alla Procura per i Diritti Umani e alla lotta contro la denutrizione (di cui soffre quasi la metà dei bambini sotto i cinque anni).

Quest'anno, ad aggravare la situazione, è sopraggiunta la drammatica crisi sanitaria dovuta al Covid. Con oltre 4.000 morti e quasi 120.000 contagiati, il Guatemala è tra i paesi della regione più colpiti dalla pandemia. I suoi ospedali sono al collasso, medici e infermieri denunciano la carenza di farmaci e di dispositivi di protezione. Dei 3.800 milioni di dollari di aiuti stanziati per i settori più colpiti, i destinatari hanno ricevuto solo il 15%: il resto si è perso nei meandri della corruzione. E la militarizzazione del territorio, con il pretesto di fermare la diffusione del virus, ha significato l'incremento di aggressioni contro ambientalisti e difensori dei diritti umani. Il passaggio in novembre dei devastanti uragani Eta e Iota, con lo strascico di decine di morti e migliaia di famiglie senza casa, ha mostrato una volta di più l'inefficienza del governo, incapace di approntare piani di evacuazione e di soccorso.

L'approvazione del bilancio ha acceso la miccia della rivolta contro il cosiddetto Pacto de Corruptos, i gruppi oligarchici che controllano politica, economia e giustizia. Il 21 novembre migliaia di persone sono scese in piazza a Città del Guatemala, chiedendo le dimissioni del presidente Giammattei. La protesta si è indirizzata anche contro il Congresso: un gruppo di incappucciati ha rotto i vetri delle finestre lanciando all'interno alcune torce. L'incendio ha devastato gli uffici, che in quel momento erano deserti. Le manifestazioni nella capitale, pur represse con brutalità dalle forze di sicurezza, con numerosi feriti e decine di arresti, sono continuate nei giorni successivi mentre le comunità indigene bloccavano importanti arterie nella zona occidentale del paese. I parlamentari si sono così visti costretti ad annullare il contestato bilancio. Ora però, tra le richieste di organizzazioni femministe, associazioni studentesche e movimenti sociali, non c'è più soltanto la rinuncia del governo e dei congressisti, ma l'insediamento di un'Assemblea Costituente che possa portare a una reale trasformazione.

30/11/2020


Perù, rivolta popolare in difesa della democrazia

È durata meno di una settimana l'avventura golpista di Manuel Merino, il presidente del Congresso chiamato a sostituire il capo dello Stato Martín Vizcarra. Quest'ultimo il 9 novembre era stato destituito dall'incarico per "incapacità morale permanente" con l'accusa di aver ricevuto tangenti da due imprese costruttrici tra il 2011 e il 2014, quando era governatore del dipartimento di Moquegua. La destituzione di Vizcarra è stata decisa attraverso un voto parlamentare contro i dettami della Costituzione, che contempla la possibilità di aprire un processo politico al presidente solo se questi si rende colpevole di alto tradimento, impedisce lo svolgimento delle elezioni, scioglie il Congresso al di fuori dei casi espressamente previsti oppure ostacola il funzionamento degli organismi elettorali.

In settembre un primo tentativo di deporre Vizcarra, per la presunta contrattazione irregolare di un collaboratore del suo governo, non aveva raggiunto gli 87 voti necessari. Questa volta il risultato è stato diverso: 105 parlamentari si sono pronunciati a favore della destituzione, soltanto 19 hanno votato contro e quattro si sono astenuti. Personaggi tra i più corrotti del paese si sono atteggiati a moralizzatori per silurare il presidente: i membri del partito di Keiko Fujimori, dell'Unión por el Perú di Antauro Humala e di Podemos Perú (il cui leader, José Luna Gálvez, diventato miliardario grazie al business delle università di bassa qualità, era stato arrestato giorni prima). Nonostante Vizcarra non si fosse mai discostato da una politica economica neoliberista e dall'allineamento a Washington, il suo tentativo di promuovere riforme anticorruzione aveva acceso il segnale d'allarme nello schieramento di destra, già screditato da innumerevoli scandali.

Contro Vizcarra ha votato anche un settore del Frente Amplio: un errore politico riconosciuto in seguito da esponenti della stessa coalizione, colti di sopresa dalla rivolta popolare. Migliaia di persone infatti sono scese immediatamente in piazza in tutte le principali città del paese: "Congresso golpista" e "Merino non mi rappresenta" gli slogan più urlati, mentre i cartelli chiarivano: "È per la democrazia, non per Vizcarra". Moltissimi i giovani, appartenenti alla cosiddetta Generación del Bicentenario (nel luglio 2021 si celebreranno i duecento anni dalla proclamazione dell'indipendenza).

Le manifestazioni, le più massicce degli ultimi tempi, si sono ripetute ogni giorno sfidando una brutale repressione, che ha provocato oltre duecento feriti e la morte di due studenti. Alla fine Merino, che si era insediato il 10 novembre, ha presentato il 15 le sue dimissioni. È stato sostituito dall'intellettuale Francisco Sagasti Hochhausler, designato a grande maggioranza dal Congresso per risolvere la grave crisi politica in corso. Sagasti, politico non sospettato di corruzione, appartiene al centrista Partido Morado, formazione che non aveva avallato la defenestrazione di Vizcarra. Nel suo primo discorso ha riconosciuto l'impegno della Generación del Bicentenario e ha promesso giustizia per i due giovani assassinati dalla polizia.

Il governo di Sagasti è destinato a durare fino al prossimo luglio, quando si insedierà il presidente che sarà stato eletto nelle consultazioni di aprile. Due le sfide che lo attendono in questi mesi: la pandemia da coronavirus, con oltre 900.000 contagiati e più di 35.000 morti, e la conseguente crisi economica (si stima che il pil quest'anno registri una caduta tra il 12 e il 14%).

17/11/2020


Cile, archiviata la Costituzione di Pinochet

Migliaia di persone hanno riempito Plaza Dignidad a Santiago alla diffusione dei primi risultati dello storico referendum per una nuova Costituzione. Una festa spontanea di massa, la consacrazione della fine della Carta Magna imposta nel 1980 dalla dittatura. L'opzione Apruebo ha raggiunto il 78,2% e praticamente la stessa percentuale (78,9) la scelta di una Convención Constitucional costituita al cento per cento da costituenti neoeletti, contro l'ipotesi di una Convención Mixta formata per il 50% dagli attuali parlamentari. Particolare non da poco, metà dei seggi della Costituente sarà occupata da donne. Dopo questo primo passo, l'11 aprile 2021 verranno eletti i membri della Costituente, infine i cileni saranno chiamati nuovamente alle urne nel 2022 per ratificare i nuovi articoli costituzionali.

Una trasformazione profonda dello scenario politico cileno, che segna la crisi dei partiti tradizionali. Compresi quelli della Concertación che, pur governando dal 1990 al 2010 e ancora dal 2014 al 2018, non riuscirono a liquidare la pesante eredità di Pinochet. Nel 2005 il presidente Ricardo Lagos introdusse una serie di riforme, sopprimendo la figura dei senatori designati e di quelli a vita, eliminando il riconoscimento delle forze armate come "garanti delle istituzioni" e abbreviando la durata del periodo presidenziale da sei a quattro anni. Nel 2015 Michelle Bachelet abolì il bipartitismo, permettendo così la nascita di altre formazioni. Inoltre, quasi al termine del suo mandato, propose un nuovo testo costituzionale: l'arrivo al potere di Sebastián Piñera impedì però che il progetto prosperasse.

Nonostante qualche miglioramento di facciata, la sostanza della Carta Magna del 1980 è rimasta inalterata fino ad oggi: ogni modifica su temi chiave richiedeva un'ampia maggioranza nel Congresso e anche le proposte approvate dai parlamentari potevano essere in seguito bocciate dal Tribunal Constitucional. Così non è stato scalfito l'impianto neoliberista dettato dal regime, che aveva privatizzato tutto, acqua compresa. È stato solo grazie alle grandi proteste iniziate esattamente un anno fa che la situazione si è sbloccata. Il malcontento popolare ha raggiunto il culmine in seguito ai bassi salari, alle misere pensioni, al peso dei debiti delle famiglie costrette a pagare cure sanitarie ed educazione dei figli, ai rincari dei trasporti e dei generi di prima necessità. Accanto a studenti e studentesse, che hanno innescato la miccia, sono scesi in piazza i lavoratori, i militanti dei movimenti sociali, saldando le loro lotte con quelle delle femministe e dei popoli originari. Il plebiscito è una conquista ottenuta con innumerevoli cortei, scioperi, mobilitazioni che hanno portato in piazza milioni di persone. Una conquista costata decine di morti e centinaia di feriti, tra cui i tanti che hanno perso la vista da uno o entrambi gli occhi per i proiettili di gomma sparati dalla polizia direttamente al volto.

26/10/2020


Bolivia, "Abbiamo recuperato la democrazia"

Una vittoria schiacciante, che blocca sul nascere ogni tentativo di brogli da parte della destra per impedire il ritorno del Mas al governo. L'ex ministro dell'Economia Luis Arce Catacora ha trionfato nelle presidenziali di domenica 18 ottobre con il 55,1% dei voti, contro il 28,8% dell'ex presidente Carlos Mesa (Comunidad Ciudadana) e il 14% del leader dell'estrema destra di Santa Cruz, Fernando Camacho (Creemos). Il Movimiento al Socialismo mantiene inoltre la maggioranza nei due rami dell'Asamblea Legislativa. L'affluenza è stata altissima: oltre l'88%. La data del 18 ottobre era stata fissata dopo tanti rinvii, grazie alla forte mobilitazione dei movimenti sociali e della Cob, che nei mesi scorsi avevano realizzato massicce proteste e lunghi blocchi stradali.

"Abbiamo recuperato la democrazia e soprattutto abbiamo recuperato la speranza": queste le prime dichiarazioni di Arce. Lo attende un compito non indifferente, quello di arginare la recessione provocata dai provvedimenti del regime golpista e dalle conseguenze della pandemia (l'economia, secondo alcune stime, ha subito un calo dell'11%). Una sfida che potrà essere vinta solo ripristinando il modello economico che aveva portato, nel periodo Morales, a una crescita elogiata perfino da The Wall Street Journal, a una drastica riduzione della povertà e al tasso di disoccupazione più basso dell'intera regione. Successi ottenuti in base a un semplice schema, che Arce riassumeva così: "Abbiamo posto l'economia al servizio del popolo. Ascoltare, capire ed eseguire quello che il popolo chiede e di cui ha bisogno".

La proclamazione ufficiale dei risultati è avvenuta solo il 23 ottobre perché alla vigilia delle elezioni il Tribunal Supremo Electoral aveva annunciato l'annullamento del computo rapido delle schede. Nella giornata del 18 irregolarità e incidenti si erano registrati in diversi punti del paese; non erano mancati gli attacchi ai giornalisti dei media comunitari che coprivano le operazioni di voto e la distruzione di urne provenienti dalle zone a maggioranza indigena. I golpisti puntavano su un secondo turno nel quale la destra avrebbe potuto ricompattarsi in funzione anti Morales: in vista di questo scenario sia la presidente de facto, Jeanine Añez, sia l'ex capo di Stato Jorge Tuto Quiroga avevano ritirato la propria candidatura per far convergere su Mesa i suffragi dei loro sostenitori. Ma a far fallire questi piani hanno contribuito la presenza dei tanti osservatori internazionali e soprattutto l'ampiezza, del tutto inaspettata, del vantaggio di Arce (i sondaggi infatti erano stati condotti soprattutto nelle aree urbane, dove l'elettorato è fortemente polarizzato su base economica, etnica e culturale, mentre avevano trascurato le zone rurali che costituiscono il bastione del Mas). E alla fine sia Añez sia lo stesso Mesa hanno dovuto riconoscere la vittoria del tanto odiato Movimiento al Socialismo.

Il voto prova l'infondatezza delle accuse di brogli, peraltro mai dimostrate, lanciate a Morales lo scorso anno dall'Organización de los Estados Americanos. Dando prova di cinismo il segretario generale dell'Oea, Luis Almagro, ha inviato le sue felicitazioni al neoeletto presidente augurandogli di forgiare "dalla democrazia" un futuro brillante per il suo paese. Il messaggio non è piaciuto ad Arce, che ha affermato: "Non siamo felici di ricevere complimenti dall'Oea, al contrario, siamo indignati", sottolineando come i delegati inviati dall'organizzazione fossero quegli stessi che l'anno precedente avevano redatto un rapporto "vergognoso". Il Grupo de Puebla ha chiesto le dimissioni di Almagro per il ruolo da lui giocato "nella destabilizzazione democratica della Bolivia" e il sottosegretario per l'America Latina del governo messicano, Maximiliano Reyes Zúñiga, ha denunciato le intromissioni del segretario generale nelle questioni interne degli Stati della regione.

Intanto gli esponenti del passato regime si preparano alla fuga. In una lettera alle autorità statunitensi, Jeanine Añez ha sollecitato la concessione di 350 visti a favore di funzionari del suo governo: evidentemente questi temono di essere chiamati a rispondere per le innumerevoli violazioni dei diritti umani, i tanti casi di corruzione e la scellerata gestione della pandemia che ha provocato la morte di migliaia di persone.

24/10/2020


Mafalda la contestataria rimane orfana

Mafalda, la bambina anticonformista che con le sue fulminanti battute metteva in luce le contraddizioni e le incoerenze degli adulti, è rimasta orfana. Il disegnatore Quino, Joaquín Salvador Lavado Tejón il suo vero nome, si è spento il 30 settembre a Mendoza, la città in cui era nato nel 1932 da genitori spagnoli emigrati in Argentina.

A Mendoza Quino cominciò a frequentare l'Escuela de Bellas Artes, che abbandonò ben presto per dedicarsi al fumetto. Nel 1954 si trasferì a Buenos Aires e le sue prime vignette uscirono nel settimanale Esto Es. Dal 1957 collaborò con vari periodici tra cui Rico Tipo e Tía Vicenta, realizzando la sua prima esposizione nel 1962 e pubblicando l'anno successivo il suo primo libro, Mundo Quino. Nel frattempo lavorava alle illustrazioni per alcune campagne pubblicitarie. E fu proprio per una marca di elettrodomestici che ideò il personaggio di Mafalda, che peraltro non venne mai utilizzato dal committente. Le prime strisce di Mafalda apparvero su Gregorio, supplemento umoristico della rivista Leoplán, uscendo poi regolarmente - dal 29 settembre 1964 - sul settimanale Primera Plana. L'anno seguente approdarono sul quotidiano El Mundo (e alla chiusura di questo sul periodico Siete Días).

Con il tempo alla bambina si aggiunsero tanti personaggi minori (oltre ai genitori, gli amici Felipe, Susanita, Manolito, Miguelito, Libertad, il fratellino Guille), un piccolo mondo in cui si rispecchiavano le inquietudini della classe media progressista degli anni Sessanta. Non solo di quella argentina: le strisce di Quino, che in patria erano diventate ben presto popolarissime, vennero tradotte e apprezzate in molti altri paesi tra cui l'Italia, dove apparvero per la prima volta nel 1969 nella raccolta Mafalda la contestataria, con il prologo di Umberto Eco.

Le avventure di Mafalda terminarono, per decisione dello stesso autore, il 25 giugno 1973, anche se Quino utilizzerà in seguito saltuariamente il suo personaggio per campagne umanitarie a favore dell'Unicef o nella Giornata dei Diritti Umani del 1988. Numerose sono state negli anni le raccolte e le trasposizioni in serie animate. Noto per la sua timidezza e la sua modestia, il disegnatore che ha rivoluzionato la grafica argentina si dichiarava sorpreso nel constatare il successo riscontrato ancora nel XXI secolo da Mafalda. Così dichiarava nel 2014, dopo essere stato insignito del Premio Príncipe de Asturias: "Riconoscimenti come questo fanno pensare di aver fatto qualcosa che alla gente piace. E questo dà molte soddisfazioni. Una cosa che mi dice molta gente è 'grazie per tutto quello che ci ha dato'. E io mi fermo a pensare che cosa ho dato loro. Non sono molto cosciente di quello che ho fatto".

La portata rivoluzionaria dei suoi disegni era però ben chiara a dittatori e repressori. Sappiamo che non piacevano al cileno Pinochet e al boliviano Barrientos. E nel luglio 1976 a Buenos Aires membri delle forze armate massacrarono tre sacerdoti e due seminaristi della chiesa di San Patricio, oppositori della giunta militare: i killer strapparono dalle pareti un manifesto con una vignetta di Quino e lo gettarono sopra i cadaveri.

1/10/2020


Negli Usa sterilizzazione forzata a migranti latinoamericane

È stata Dawn Wooten, un'infermiera che ha lavorato presso l'Irwin County Detention Center (un centro di detenzione per migranti in Georgia), a sollevare il caso: numerose donne latinoamericane rinchiuse nella struttura avrebbero subito interventi di isterectomia senza il loro consenso e senza alcuna giustificazione clinica. Il Centro è amministrato dall'impresa privata LaSalle Corrections, contrattata dall'istituzione governativa statunitense Immigration and Customs Enforcement. L'accusa di Wooten è corroborata dalla testimonianza di alcune migranti, una delle quali ha paragonato il Centro a "un campo di concentramento in cui si fanno esperimenti sulle persone" (uno dei medici implicati viene indicato con il significativo soprannome di "collezionista di uteri"). La denuncia, appoggiata da diverse organizzazioni in difesa dei diritti umani, parla anche di condizioni igieniche pessime in un periodo di massima diffusione del contagio da Covid-19.

Immediata la reazione del governo messicano: un comunicato del Ministero degli Esteri afferma che è stata "sollecitata informazione dettagliata alle autorità al fine di chiarire gli eventuali danni a cittadine messicane", annunciando il ricorso a "strumenti diplomatici e giuridici" per chiarire quanto accaduto. Anche negli Stati Uniti la notizia non ha lasciato indifferenti: 173 congressisti hanno chiesto l'immediata apertura di un'indagine in merito e la presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi, ha dichiarato che "se sono vere le spaventose condizioni descritte nella denuncia, comprese le accuse di isterectomie di massa a donne migranti vulnerabili, si tratta di una violazione spaventosa dei diritti umani".

Gli Usa non sono nuovi a simili aberrazioni, che si ritrovano fin dai primi anni della loro storia. il dottor James Marion Sims (1813-1883) conduceva dolorose sperimentazioni, senza anestesia, sulle schiave; per questi suoi studi viene considerato "il padre della moderna ginecologia" e numerose sono le statue erette in suo onore (qualcuna negli anni scorsi è stata fortunatamente rimossa). Come afferma la scrittrice Allison Hope, "Gli Stati Uniti hanno una storia lunga e documentata dell'uso di corpi umani, specialmente i corpi di donne nere, mulatte e indigene, per esperimenti scientifici".

Quanto alla pratica della sterilizzazione forzata, risale a oltre un secolo fa. La prima legge sulla sterilizzazione eugenetica venne approvata nell'Indiana nel 1907; dopo quella data altri 31 Stati seguirono le stesse orme, con la California che si distinse per la solerzia nell'applicazione. Tali norme, dalle quali Adolf Hitler trasse ispirazione per l'eugenetica nazista, legittimavano la sterilizzazione delle persone (di entrambi i sessi) considerate non idonee alla riproduzione: minorati psichici, epilettici, alcoolizzati, autori di determinati reati e indigenti. All'elenco si aggiunsero, con un'ottica razzista, afroamericani, nativi americani e ispanici: quella parte della popolazione che i suprematisti bianchi consideravano "indesiderabile".

Negli Stati del Sud le operazioni erano così frequenti che venivano popolarmente definite Mississippi appendectomies: ne fu vittima tra l'altro l'attivista per i diritti civili Fannie Lou Hamer. Secondo uno studio realizzato nel 1968 dal demografo José Vásquez Calzada, oltre il 35% delle donne portoricane tra i 20 e i 49 anni era stato sterilizzato. Negli anni Sessanta e Settanta migliaia di native americane subirono analoga sorte ad opera dei sanitari dell'Indian Health Service, come ha documentato la ricercatrice Jane Lawrence. E tra il 2006 e il 2010, in due carceri californiane, avvenne lo stesso ai danni di 148 detenute: lo ha rivelato il Center for Investigative Reporting, organizzazione non profit che da decenni svolge lavoro giornalistico indipendente. Quanto successo in Georgia dunque non è soltanto in linea con la politica dell'amministrazione Trump verso i migranti (ricordiamo i bambini strappati ai genitori e chiusi in gabbie), ma è la continuazione di pratiche eugenetiche di antica data che trovano ancora terreno fertile negli Usa.

22/9/2020


Colombia, Alvaro Uribe agli arresti domiciliari

Fino al 4 agosto "in Colombia esisteva una specie di tabù secondo il quale un ex presidente, un uomo potente e influente non poteva essere citato dalla giustizia e tantomeno privato della libertà. Questo mito è stato abbattuto dalla Corte Suprema". Così Iván Cepeda, del Polo Democrático Alternativo, ha commentato gli arresti domiciliari decretati nei confronti dell'ex capo dello Stato Alvaro Uribe, sospettato di frode processuale. Tutto parte dalla causa intentata contro lo stesso Cepeda nel 2012: Uribe lo accusava di aver montato un complotto contro di lui, "manipolando testimoni" e ottenendo false dichiarazioni di ex paramilitari che lo coinvolgevano nelle attività criminali dei gruppi dell'estrema destra.

Ma la Corte, dopo aver scagionato Cepeda, nel 2018 apriva un'indagine proprio contro Uribe con la stessa accusa. E in seguito decideva di dare nuovo impulso a una serie di indagini sulle azioni dei paramilitari nella seconda metà degli anni Novanta, quando Uribe era governatore del dipartimento di Antioquia: le stragi di El Aro e de La Granja, avvenute nel municipio di Ituango, e l'uccisione dell'avvocato Jesús María Valle, che aveva denunciato i responsabili di tali crimini. L'ex presidente è stato citato a dichiarare per questi fatti, anche se - con una mossa a sorpresa - ha rinunciato al suo seggio di senatore chiedendo (e ottenendo) che tutte le inchieste a suo carico passassero dall'Alta Corte, competente in caso di parlamentari, alla Procura Generale, dove conta sicuri appoggi.

La vicenda ha costituito un vero e proprio terremoto nella politica colombiana, completato dalla decisione del Consejo Nacional Electoral di aprire un'inchiesta preliminare contro il presidente Iván Duque e la sua formazione Centro Democrático: (partito uribista che di centro ha solo il nome: appartiene in realtà all'estrema destra). Per la sua campagna Duque avrebbe ricevuto un finanziamento illegale del valore di 300.000 dollari dall'imprenditore Oswaldo Cisneros, appartenente a una delle famiglie più ricche del Venezuela, contro la norma della Costituzione che proibisce donazioni dall'estero a favore di candidati a elezioni nazionali.

In difesa di Uribe è subito scesa in campo l'amministrazione Trump: attraverso Twitter il vicepresidente Usa, Mike Pence, ha dichiarato: "Ci uniamo a tutte le voci amanti della libertà nel mondo per chiedere ai funzionari colombiani che permettano a questo eroe, che ha ricevuto la Medaglia della Libertà della Presidenza degli Stati Uniti, di difendersi da uomo libero". L'eroe di cui parla Pence, va ricordato, è un protagonista del periodo più buio della storia colombiana, oppositore a ogni accordo di pace con la guerriglia, ben noto per i suoi legami con i paramilitari e per la politica dei "falsi positivi", l'assassinio da parte dell'esercito di civili presentati poi come insorti uccisi in combattimento. Ed è lo stesso personaggio che i servizi segreti statunitensi segnalavano, già all'inizio degli anni Novanta, per i suoi rapporti con il Cartello di Medellín (lo rivelano documenti segreti recentemente declassificati).

Le iniziative dei tribunali non fermano comunque la drammatica spirale di violenza nel paese, che non dà tregua neppure nel pieno della pandemia. Solo quest'anno sono stati documentati una cinquantina di massacri con circa 200 morti, effettuati da gruppi armati con la complicità delle forze di sicurezza. Le stragi di contadini e indigeni avvengono nelle zone in cui il narcotraffico vuole estendere il suo controllo; i sopravvissuti, terrorizzati, sono così indotti ad abbandonare le loro terre. E continuano anche gli omicidi selettivi di leader sociali, sindacalisti, ambientalisti, difensori dei diritti umani. Nonché ex guerriglieri delle Farc, che avevano deposto le armi dopo la firma degli storici accordi con il governo nel dicembre 2016.

Tra le vittime c'è anche l'italiano Mario Paciolla, collaboratore della Missione delle Nazioni Unite incaricata di monitorare il processo di pace nel dipartimento di Caquetá. Paciolla, 33 anni, è stato trovato morto il 15 luglio: un chiaro omicidio che inizialmente le autorità hanno tentato di far passare come suicidio. Il giovane, che scriveva sotto pseudonimo approfondite analisi della realtà colombiana per Limes e Eastwest, potrebbe essere stato testimone di attività illegali. Pochi giorni prima aveva confidato ai familiari di essere molto preoccupato e aveva annunciato la sua intenzione di tornare in patria al più presto: aveva già prenotato il volo aereo per il 20 dello stesso mese. Si sa che la sera del 14 luglio contattò telefonicamente il responsabile sicurezza della Missione Onu di San Vicente del Caguán: una chiamata di cui non si conosce il contenuto. Ai tanti punti interrogativi sulla sua tragica fine va aggiunto l'anomalo comportamento dei funzionari delle Nazioni Unite, che il giorno dopo il ritrovamento del corpo hanno sequestrato tutti gli effetti personali di Paciolla senza attendere il sopralluogo degli inquirenti, raccomandando a quanti avevano lavorato con il giovane italiano la massima discrezione.

E pur di fronte all'emergenza sanitaria che ha colpito il paese (il tragico bilancio ha già superato i 600.000 contagiati da Covid-19, con oltre 20.000 morti) Duque continua a respingere gli appelli dell'Ejército de Liberación Nacional a una tregua. L'Eln aveva già sospeso unilateralmente le azioni militari dal primo al 30 aprile per ragioni umanitarie chiedendo al governo di fare altrettanto, ma l'invito era caduto nel vuoto. In luglio la nuova proposta del gruppo guerrigliero di cessare le ostilità per tre mesi ha ottenuto la stessa risposta negativa.

Nel frattempo il governo di Bogotá ha presentato l'ennesimo piano di cooperazione con gli Stati Uniti, denominato Colombia Crece, volto a "garantire la sicurezza nel paese e combattere le organizzazioni criminali" come ha specificato il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, Robert O'Brien. L'iniziativa è stata subito denunciata dal partito Farc: "Il presidente vuole condannare questo paese alla guerra eterna; come buon servitore degli Stati Uniti pretende riproporre il Plan Colombia che ha lasciato solo morte e desolazione nelle campagne". Duque e O'Brien hanno affermato che "marceranno contro il Venezuela", sottolinea la parlamentare María José Pizarro, chiedendosi se questo preannuncia "un'invasione terrestre colombo-americana attraverso la frontiera".

2/9/2020


Guyana, vittoria della sinistra alle elezioni

Gli abitanti della Co-operative Republic of Guyana avevano votato il 2 marzo, ma la proclamazione del vincitore è arrivata solo cinque mesi dopo: nelle presidenziali si è imposto Mohamed Irfaan Ali, della formazione di sinistra Ppp/C (PeoplÈs Progressive Party/Civic). Il ritardo nel riconoscimento dei risultati è dovuto al tentativo del presidente uscente, l'ex militare David Arthur Granger sostenuto dalla coalizione Apnu/Afc, di ottenere la riconferma grazie ai brogli. Un tentativo maldestro: la verifica ha permesso di scoprire circa 4000 schede non conteggiate a favore dell'opposizione attribuendo così il trionfo al Ppp/C, che ha anche conquistato la maggioranza dei seggi della National Assembly.

Questo voto riveste una particolare importanza politica visto che il paese confina con il Venezuela e che il governo Granger era noto per le sue posizioni filostatunitensi (alla ExxonMobil aveva dato in concessione le ricche riserve petrolifere di cui dispone). Ma avvicinandosi il momento delle consultazioni, l'esecutivo di Georgetown aveva tentato di prendere le distanze dall'amministrazione Trump: in luglio - aveva rivelato il quotidiano Chronicle - aveva respinto la richiesta Usa di utilizzare il territorio della Guyana per trasmettere la Voz de las Américas e i suoi contenuti antichavisti verso la Repubblica Bolivariana. La responsabile delle Comunicazioni della presidenza, Ariana Gordon, aveva dichiarato: "Non è nel nostro interesse nazionale fare quacosa che contribuisca a destabilizzare le relazioni con il Venezuela". Relazioni già complicate dalla controversia in corso per il controllo della regione dell'Esequibo.

3/8/2020


Uruguay, verso la restaurazione

Ley de Urgente Consideración: si chiama così perché il Parlamento ha a disposizione solo 90 giorni per discuterla. In così breve tempo deputati e senatori hanno dovuto esaminare circa 500 articoli di una mega proposta di legge che configura un paese nettamente spostato a destra. Voluta dal governo del presidente Luis Lacalle Pou (Partido Nacional), entrato in funzione il primo marzo, la legge è stata approvata l'8 luglio dal Senato dopo il via libera dei deputati la settimana precedente.

Secondo il Frente Amplio le nuove normative costituiscono un passo indietro in materia di diritti. Basta un'occhiata ai temi più controversi per convalidare questo giudizio. In campo sindacale viene limitato il diritto di sciopero, che potrà essere esercitato solo permettendo a quanti non aderiscono di recarsi al lavoro e garantendo agli imprenditori il libero accesso agli stabilimenti. Proibiti i picchetti che "impediscano la libera circolazione" e le occupazioni delle fabbriche.

Alla polizia viene concesso un ampliamento dei criteri della legittima difesa e l'aggressione fisica a un agente sarà considerata un aggravante del reato. Il legislatore ha giustificato questi cambiamenti con la necessità di dare più potere alle forze di sicurezza nella lotta contro la criminalità. Un argomento che il parlamentare del Frente Amplio Daniel Gerhard ha demolito affermando: "In gennaio e febbraio la polizia ha abbattuto 31 persone e nessun agente è stato rinviato a processo o inquisito dalla giustizia. Di quanti altri morti ha bisogno la destra per dire che la polizia può assolvere il suo compito senza avere le mani legate?"

Altro tema molto discusso è la modifica delle normative finanziarie approvate dal precedente governo, che miravano a incentivare il pagamento elettronico. Ora si potranno effettuare in contanti transazioni fino a un equivalente di 100.000 dollari: una misura che favorirà il lavoro nero e l'evasione fiscale. Quanto alla scuola, la legge è stata contestata già prima dell'approvazione dalle associazioni dei docenti, scese in piazza per denunciare una riforma che promuove la mercantilizzazione e la privatizzazione dell'educazione.

Intanto il paese è alle prese con la pesante situazione prodotta dalla pandemia. Il sistema sanitario, rafforzato negli anni di gestione del Frente Amplio, ha retto bene all'attacco del virus, ma rimane la minaccia alla frontiera con il Brasile, seconda nazione al mondo per numero di contagi. E la crisi economica ha già provocato la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro. Agli inizi di giugno la centrale sindacale unitaria Pit-Cnt si era mobilitata con uno sciopero di quattro ore e una massiccia manifestazione, per chiedere politiche statali in risposta all'emergenza. Ma difficilmente tali richieste troveranno ascolto da parte di Lacalle Pou, che in campagna elettorale aveva promesso forti tagli alla spesa pubblica.

Anche la politica estera del Frente Amplio è stata completamente stravolta dal cambio della guardia a Montevideo. Tra le prime decisioni del nuovo governo l'uscita dall'Unasur, l'Unión de Naciones Suramericanas (l'organismo regionale sarebbe basato su "allineamenti politico-ideologici"), e l'interruzione della procedura di ritiro dal Tiar, il Tratado Interamericano de Asistencia Recíproca che la destra continentale vorrebbe usare contro il Venezuela. Proprio l'atteggiamento nei confronti di Caracas ha portato in luglio alle dimissioni del ministro degli Esteri, Ernesto Talvi, e alla sua sostituzione con l'ex ambasciatore in Spagna Francisco Bustillo. Le divergenze tra il capo dello Stato e Talvi si erano approfondite quando quest'ultimo, pur sostenendo che in Venezuela "si violano sistematicamente i diritti umani", si era rifiutato di parlare di "dittatura". Aveva cercato insomma di usare un "linguaggio rispettoso" per lasciare la porta aperta al dialogo. Troppo rispettoso, a quanto pare, per i gusti di Lacalle Pou e della coalición multicolor che lo ha sostenuto nella sua corsa alla presidenza.

E naturalmente dai banchi della maggioranza, in particolare da Cabildo Abierto che ne rappresenta l'ala estrema, non poteva mancare il tentativo di voltare pagina sui diritti umani, con la proposta di un'amnistia per i militari colpevoli di crimini di lesa umanità durante la dittatura. Un'ipotesi respinta con forza dall'organizzazione Madres y Familiares de Uruguayos Detenidos Desaparecidos, che ha ribadito la necessità di un impegno politico fermo con la giustizia perché "non vi sia mai più terrorismo di Stato". Un impegno riaffermato il 20 maggio con la tradizionale Marcha del Silencio (quest'anno realizzata in forma virtuale) e con la mobilitazione del 27 giugno, anniversario del golpe del 1973, promossa da Frente Amplio e sindacato unitario.

9/7/2020


Repubblica Dominicana, finisce il lungo dominio del Pld

La parola Cambio ha sedotto l'elettorato della Repubblica Dominicana, che domenica 5 luglio ha eletto presidente al primo turno Luis Abinader, del Partido Revolucionario Moderno. Finisce così il lungo dominio del Partido de la Liberación Dominicana, al governo ininterrottamente da sedici anni (prima con Leonel Fernández e poi con l'attuale capo dello Stato, Danilo Medina). La lunga gestione del potere ha indebolito l'immagine del Pld, accusato a più riprese di corruzione: esponenti di primo piano sono stati coinvolti nello scandalo Odebrecht, l'impresa brasiliana che versava tangenti a innumerevoli paesi per ottenere lucrosi appalti. E a intaccare ulteriormente la popolarità del partito è stata la spaccatura dello scorso anno quando Fernández, dopo aver denunciato brogli nelle primarie che avevano indicato come candidato Gonzalo Castillo, era uscito dando vita a una nuova formazione, Fuerza del Pueblo.

Le difficoltà che il Pld avrebbe incontrato in questo voto erano apparse chiare già in febbraio quando migliaia di persone, soprattutto giovani, si erano mobilitate per protestare contro le autorità elettorali, che avevano deciso la cancellazione delle consultazioni municipali già in corso, a causa di un difetto del sistema. Le spiegazioni erano state giudicate pretestuose e si era insinuato il sospetto che si volesse impedire una vittoria delle opposizioni.

Ma il colpo definitivo è venuto dalla pandemia, che nella Repubblica Dominicana ha registrato livelli di contagio e di mortalità, in rapporto al numero di abitanti, tra i più alti della regione. Le cause sono da rintracciare nelle politiche neoliberiste consacrate dalla Costituzione del 2010, che per anni hanno tagliato i fondi alla sanità pubblica e favorito la privatizzazione. Il Colegio Médico Dominicano da tempo avvertiva dei pericoli insiti nella situazione di precarizzazione del servizio sanitario, che lo scorso anno aveva ricevuto solo l'1,64% del pil. Come conseguenza, negli ospedali sono mancati i test per il coronavirus e i dispositivi di protezione per medici e infermieri. Scarsi anche i sussidi concessi dal governo per alleviare la crisi provocata dalla quarantena: i lavoratori informali, che rappresentano la grande maggioranza, si sono dovuti accontentare di aiuti alimentari distribuiti in maniera discontinua. Nel frattempo a favore del capitale venivano abbassati gli interessi bancari ed era reso più flessibile il regime tributario.

Non stupisce dunque che dalle urne sia uscita una sonora bocciatura del governo in carica. Ma con ogni probabilità Abinader, imprenditore di origine libanese con interessi nel settore agricolo, nel turismo e nell'industria del cemento, non avvierà alcuna trasformazione degli equilibri politici. Il suo programma si limita a generiche promesse di miglioramenti nell'economia e di maggiore trasparenza nella gestione pubblica e non punta a un reale cambiamento dell'indirizzo economico del paese.

7/7/2020


Argentina, per la destra il virus è "inesistente"

"Ramona è stata uccisa dai padroni del silenzio, dai complici dell'indifferenza, dai muti della giustizia", affermano i suoi compagni di lotta. Ramona Medina, portavoce dell'organizzazione e rivista La Garganta Poderosa, si batteva per ottenere i servizi essenziali nella Villa Miseria 31 di Buenos Aires. È rimasta vittima il 17 maggio del Covid-19, dopo aver denunciato che da giorni nella zona mancava l'acqua. La Villa 31, 50.000 abitanti, sorge ai bordi di un quartiere residenziale; è intitolata a Padre Mugica, del Movimiento de Sacerdotes para el Tercer Mundo, che qui svolse gran parte del suo lavoro comunitario prima di essere assassinato nel 1974 dalla Triple A.

Sempre in maggio è morto Agustín Navarro Condori, leader sociale della Villa 3 e militante di Barrios de Pie. La pandemia ha colpito soprattutto gli insediamenti precari, dove vivono ammassate migliaia di persone. E se nel resto del paese il governo nazionale è riuscito a contenere la diffusione del virus con una rigida quarantena, nella capitale - retta dalla destra di Juntos por el Cambio - la decisione in giugno di attenuare il lockdown ha fatto impennare la cifra dei contagi.

La battaglia contro il coronavirus non è stata certo favorita dalle mobilitazioni dell'opposizione, che nelle principali città è scesa in piazza violando ogni regola sanitaria. I bersagli della destra sono i provvedimenti anti-Covid (una coronadictadura che avrebbe utilizzato un "virus inesistente" per chiudere la gente in casa) e l'ipotesi di espropriazione dell'azienda cerealicola Vicentín. L'impresa è fallita lasciando colossali debiti nei confronti dei produttori locali, nonostante i prestiti milionari ottenuti in modo fraudolento dal governo di Mauricio Macri.

Diversi commentatori ritengono che queste proteste siano fomentate ad arte per coprire uno dei maggiori scandali della gestione Macri: lo spionaggio ai danni di esponenti politici, magistrati, imprenditori, religiosi e soprattutto giornalisti (compresi i corrispondenti della Cnn e di agenzie internazionali come Ap, Reuters, Afp). La denuncia è stata presentata dalla nuova responsabile dell'Agencia Federal de Inteligencia Argentina, Cristina Caamaño e l'indagine coinvolge, insieme all'ex capo dello Stato, la precedente dirigenza dell'intelligence. Negli archivi, a ciascun nome erano collegate annotazioni sulle tendenze politiche e sindacali, sulla difesa o meno di posizioni femministe. Tra i testimoni ascoltati dal giudice Federico Villena, che conduce la causa, vi è la ex presidente (e attuale vicepresidente) Cristina Fernández, che ha sottolineato la complicità della Corte Suprema nella diffusione illegale delle intercettazioni di cui era stata vittima.

24/6/2020


Perù, si moltiplicano contagi e casi di corruzione

Nel paese sudamericano tra i più colpiti dalla pandemia il sistema sanitario, trascurato da anni di politica neoliberista, è giunto rapidamente al collasso. Molti malati sono morti nelle proprie abitazioni nell'attesa vana di un ricovero, altri aspettando inutilmente assistenza in ospedali ormai in tilt. La quarantena a livello nazionale era stata decretata fin dal 16 marzo, ma pochi hanno potuto osservarla. I lavoratori informali, il 70% del totale, si sono trovati di fronte all'alternativa: uscire rischiando la malattia o chiudersi in casa senza mezzi di sussistenza.

La fame è l'altra faccia della tragedia innescata dal Covid-19. Già in aprile migliaia di persone erano fuggite da Lima, la città con il maggior numero di contagi, per tornare verso i villaggi d'origine: un viaggio disperato compiuto il più delle volte a piedi, passando la notte su cartoni al lato della strada. Il buono, per una somma equivalente a 220 dollari circa, destinato dal governo alle famiglie più disagiate non è certo sufficiente e comunque arriva con lentezza esasperante; gli aiuti alle imprese non hanno impedito la sospensione di salari e stipendi a decine di migliaia di dipendenti. Nelle carceri, sovrappopolate, la situazione è drammatica: la cifra dei contagiati continua ad aumentare e i reclusi chiedono invano controlli sanitari e la distribuzione di mascherine. Rivolte sono scoppiate a fine aprile in alcuni penitenziari: a Castro Castro, nei pressi di Lima, la polizia è intervenuta con estrema violenza, sparando e uccidendo nove detenuti.

E nel periodo dell'emergenza pandemica il Congresso, uscito dalle elezioni del 26 gennaio, ha approvato la Ley 31012 che esime da ogni responsabilità i membri delle forze di sicurezza: non saranno passibili di arresto nel caso feriscano o uccidano qualcuno "nell'esercizio delle loro funzioni". La legge era stata elaborata dal precedente Parlamento, dominato dal fujimorismo. Sconfitto il partito di Keiko Fujimori, le formazioni di destra che costituiscono l'attuale maggioranza hanno comunque mostrato di apprezzare la politica della "mano dura", nonostante le accuse di incostituzionalità mosse alle nuove norme da illustri giuristi.

Insieme ai contagi, dallo scoppio della crisi sanitaria si sono moltiplicati i casi di corruzione: agli inizi di giugno erano già 653 le denunce per illegalità commesse da funzionari pubblici. Lo scandalo più clamoroso riguarda l'indagine sull'acquisto di dispositivi di protezione per la Policía Nacional: da quanto è emerso, il disinfettante era diluito, guanti e mascherine si rompevano al primo uso. Oltre 15.000 agenti sono risultati positivi al virus e più di 200 sono morti.

23/6/2020


Cile, un paese in lutto

Il paese "è in lutto", scrivono in una lettera aperta una quarantina di ricercatori, medici, scienziati, accademici. "Le cifre note dell'impatto del coronavirus ci indicano che questa è diventata la peggiore crisi umanitaria degli ultimi ottant'anni, superando l'epidemia di influenza del 1957 nella quale, secondo i calcoli, morirono 5.400 persone. Dovrà essere superata la pandemia di spagnola del 1918-1920, in cui morirono 37.000 persone in Cile, per cambiare strategia?"

Le drammatiche conseguenze del Covid-19 sono aggravate dal neoliberismo feroce che vige nel paese. Mettendo al primo posto le richieste degli imprenditori, il governo ha concesso la sospensione dei contratti senza alcun indennizzo per tutta la durata della pandemia. E mentre ospedali e obitori sono al collasso, da più parti si denuncia la mancanza di trasparenza sui numeri forniti dalle autorità. In merito ai decessi il governo ha due conteggi. Il rapporto epidemiologico, che include anche i casi sospetti, è già arrivato a quota 7.144: una cifra "nascosta" in decine di pagine online per addetti ai lavori. L'informazione diffusa alla popolazione si ferma invece a 4.502.

Quanto alle misure per frenare il contagio, Piñera aveva assicurato che fin da gennaio era pronto un piano redatto in base alle raccomandazioni dell'Oms, ma erano solo parole, che non hanno impedito al Covid-19 di colpire con estrema violenza. E alla crisi sanitaria si è aggiunta la crisi sociale. La quarantena decretata a metà maggio nella Regione Metropolitana di Santiago ha reso insostenibile la situazione degli strati più svantaggiati, costretti a scegliere tra il rischio di contrarre il virus e la mancanza di cibo: nei quartieri popolari la gente è scesa in piazza a protestare, spinta dalla fame. La risposta del governo è stata da una parte la repressione, dall'altra un piano di assistenza alimentare assolutamente insufficiente. Molte famiglie hanno potuto ottenere un pasto soltanto grazie alle ollas populares.

Nel pieno della pandemia, in giugno si è registrato un avvicendamento nel Ministero della Sanità, dove Enrique Paris ha sostituito il dimissionario Jaime Mañalich (noto per aver conteggiato i morti da coronavirus come "recuperati", perché "hanno smesso di essere contagiosi"). Il suo successore ha già fatto capire che seguirà sulla stessa linea, in pratica punterà a minimizzare l'emergenza per non mettere a rischio l'economia.

Sempre in giugno ha rinunciato all'incarico anche Macarena Santelices, parente di Augusto Pinochet. Poco più di un mese prima, la sua nomina a ministra della Donna e dell'Eguaglianza di Genere aveva suscitato proteste perché Macarena, della formazione di estrema destra Unión Demócrata Independiente, non si era mai distinta per le sue posizioni femministe, mentre aveva rivendicato "gli aspetti positivi" della dittatura. La sua rinuncia è legata alla diffusione di un video, realizzato dal Servicio Nacional de la Mujer y la Equidad de Género, in cui il violentatore viene presentato quasi come una vittima.

Santelices era stata designata al posto di Isabel Plá, che si era dimessa dopo aspre critiche: aveva taciuto di fronte ai ripetuti abusi sessuali commessi dalle forze di sicurezza nella repressione della rivolta scoppiata in ottobre. Come ha denunciato in gennaio l'avvocato Federico Pagliero, dell'Asamblea Permanente por los Derechos Humanos, contro i manifestanti sono stati compiuti "omicidi, stupri, mutilazioni agli occhi, torture, detenzioni illegali, minacce, intimidazioni" (a fine mese, all'elenco dei morti si erano aggiunti altri quattro nomi). L'emergenza sanitaria ha provocato una parziale sospensione delle proteste, anche se a fine marzo nella capitale si sono registrati scontri in occasione del Día del Joven Combatiente, anniversario dell'uccisione nel 1985 di due giovani per mano dei carabineros. E a fine aprile sono avvenuti nuovi incidenti in seguito all'ipotesi, avanzata da esponenti della destra compreso lo stesso Piñera, di rinviare ancora il referendum per la nuova Costituzione, già spostato a ottobre a causa del Covid-19.

23/6/2020


Messico, proteste a Guadalajara contro la violenza poliziesca

Un caso George Floyd in Messico. Giovanni López, muratore trentenne, era stato fermato il 4 maggio da una pattuglia a Ixtlahuacán de los Membrillos (Jalisco). Il suo reato: non portava la mascherina e il governatore dello Stato, Enrique Alfaro (Movimiento Ciudadano), aveva ordinato l'arresto di chiunque ne fosse privo. Il giorno seguente i familiari ricevevano il corpo senza vita del giovane: era stato massacrato di botte in carcere. Un mese dopo, la diffusione di un video in cui si vede il momento dell'arresto di Giovanni ha scatenato la protesta: a Guadalajara, per tre giorni di seguito, la gente è scesa in piazza non solo contro l'omicidio, ma contro i tanti abusi commessi dalla polizia statale. Sono scoppiati disordini, repressi con brutalità dagli agenti. Secondo il governatore, che ha chiamato in causa direttamente il presidente López Obrador, tra i dimostranti vi erano infiltrati provenienti da fuori, che rispondevano a "interessi costruiti da Città del Messico, dai sotterranei del potere".

Alla guida di uno Stato importante dal punto di vista economico, Alfaro è tra i principali oppositori dell'attuale governo federale e si fa il suo nome come possibile candidato presidenziale nel 2024. Oltre a lui, tra gli avversari della Quarta Trasformazione c'è Pedro Luis Martín Bringas, azionista della catena di grandi magazzini Soriana e da maggio leader del Frente Nacional anti-AMLO. Obiettivo dichiarato del Frente, di cui fanno parte industriali di estrema destra, è rimuovere López Obrador dalla presidenza prima di dicembre.

Per screditare la gestione di Amlo l'opposizione sfrutta anche il diffondersi del Covid-19, che ha già provocato quasi 20.000 morti e sta portando al collasso le strutture ospedaliere, indebolite da decenni di neoliberismo. Dopo un primo momento di sottovalutazione del pericolo, il Messico - grazie al sottosegretario alla Sanità Hugo López-Gatell - ha adottato rigide misure per limitare il contagio. Ma la destra attacca su più fronti: o negando la realtà della pandemia e chiedendo la riapertura di ogni attività produttiva o rimproverando al governo una risposta troppo debole alla minaccia del coronavirus.

Accanto all'emergenza sanitaria, all'orizzonte si profila una pesante crisi economica. L'occupazione ha subito un duro colpo: secondo l'Instituto Mexicano del Seguro Social, tra il 13 marzo e il 6 aprile sono stati persi 346.800 posti di lavoro. López Obrador ha varato provvedimenti per sostenere la popolazione più svantaggiata, scontentando i settori imprenditoriali che pretendevano aiuti alle imprese e tagli alle tasse. Altro elemento di polemica, il rifiuto di Amlo di chiedere prestiti al Fondo Monetario Internazionale per riattivare l'economia: come il presidente ha ricordato, dopo la crisi finanziaria del 1994 le banche furono salvate con un indebitamento massiccio che, a distanza di anni, pesa ancora sul paese e continuerà a pesare sulle prossime generazioni.

E anche i primi sei mesi del 2020 registrano decine di vittime della violenza. Tra queste la pittrice e artista plastica Isabel Cabanillas de la Torre, che a Ciudad Juárez lottava contro i femminicidi, la tratta, le desapariciones; l'ingegnere agronomo Homero Gómez González, che nel Michoacán si dedicava alla salvaguardia della Reserva de la Biósfera Mariposa Monarca; la giornalista del Diario de Xalapa María Elena Ferral, che sul sito El Quinto Poder segnalava i responsabili di omicidi politico-mafiosi; l'ambientalista Adán Vez Lira, che si opponeva allo sfruttamento minerario nella Regione de la Mancha (Veracruz) e costruiva alternative per lo sviluppo sostenibile; il leader della comunità rarámuri Antonio Montes Enríquez, che denunciava lo storno dei fondi destinati a indennizzare gli abitanti per la costruzione dell'aeroporto di Creel (Chihuahua).

19/6/2020


Bolivia, il Grupo de Puebla contro il governo golpista

Il Grupo de Puebla, che riunisce numerose personalità progressiste latinoamericane e spagnole, in una dichiarazione pubblica sottoscritta tra gli altri da Dilma Rousseff, Rafael Correa, Fernando Lugo e Clara López ha sollecitato l'Organización de los Estados Americanos a convalidare la vittoria di Evo Morales nelle elezioni dell'ottobre scorso. I firmatari basano la loro richiesta sui risultati di una serie di studi condotti da università e centri di ricerca statunitensi, che hanno dimostrato come le accuse di frode lanciate a suo tempo dalla missione di osservatori dell'Oea non abbiano fondamento. Chiedono dunque che venga ristabilita "la legittimità democratica in Bolivia", interrotta dal colpo di Stato del novembre 2019. Il comunicato prosegue affermando che, da quanto avvenuto, "la comunità internazionale potrebbe presumere che l'organismo multilaterale sia stato complice del rovesciamento di un governo democratico". Non è un semplice sospetto: proprio il segretario generale dell'Oea, Luis Almagro, fu tra i primi ad accusare Morales di brogli (in marzo Almagro è stato riconfermato alla guida dell'Organizzazione grazie all'appoggio di Stati Uniti, Brasile e Colombia).

Il comunicato del Grupo de Puebla termina facendo appello alla presidente de facto Jeanine Añez affinché restituisca subito il potere, conservato grazie al "rinvio sistematico e inesplicabile del processo elettorale". All'indomani del golpe Añez aveva affermato che sarebbero state convocate immediate consultazioni per designare il nuovo presidente entro il 22 gennaio, scadenza del mandato di Morales. Ma il voto è stato spostato al 3 maggio e poi di nuovo rinviato approfittando dello scoppio della pandemia. Agli inizi di giugno il presidente del Tribunal Supremo Electoral, Salvador Romero, ha annunciato che le elezioni presidenziali e parlamentari si terranno entro il 6 settembre, come emerso da un accordo tra le principali forze politiche. Añez cerca però di prendere tempo e non ha ancora promulgato la legge che fissa la data precisa del voto. La destra teme il responso delle urne: tutti i sondaggi indicano come favorito il Movimiento al Socialismo, che presenta come candidato presidenziale l'ex ministro dell'Economia Luis Arce Catacora.

Sulle candidature in gennaio si era tenuto un lungo dibattito all'interno del Mas. Il Pacto de Unidad, alleanza di movimenti politici e sociali, sindacati e organizzazioni indigene, aveva proposto la formula David Choquehuanca e Andrónico Rodríguez (giovane dirigente cocalero). Alla fine si è imposto il binomio Arce-Choquehuanca, ritenuto in grado di rivolgersi sia alla classe media urbana che alle comunità native. Il primo è un cattedratico che ha tenuto conferenze in numerose università europee e statunitensi ed è artefice del modello economico che ha strappato alla povertà oltre tre milioni di boliviani; il secondo è un leader sociale aymara con una grande esperienza politica prima come titolare degli Esteri, poi come segretario generale dell'Alba.

Nel paese non si attenua la repressione di quanti si oppongono al nuovo regime. A distanza di mesi dagli avvenimenti, i familiari delle vittime di Sacaba e Senkata non hanno ottenuto alcuna risposta dallo Stato e i responsabili dei massacri rimangono impuniti. A Sacaba (Cochabamba) il 15 novembre membri delle forze armate e della polizia uccisero nove manifestanti cocaleros; un altro dimostrante morì il giorno successivo. A Senkata (El Alto), dal 19 al 22 dello stesso mese furono assassinate altre nove persone. Non furono gli unici episodi sanguinosi con cui si cercò di far tacere ogni protesta. Il bilancio finale parla di 35 morti e circa 800 feriti. In carcere vi sono oltre 1.500 funzionari e militanti del Mas, tra cui l'avvocata Patricia Hermosa (che per mancanza di assistenza medica ha perso il bambino che aspettava). Centinaia hanno preso la via dell'esilio, mentre da mesi cinque ex ministri del governo Morales sono rifugiati nell'ambasciata messicana: il regime rifiuta di concedere loro i salvacondotti per uscire dal paese. Aumentano anche gli episodi di discriminazione nei confronti della popolazione indigena. Come ha denunciato a Página/12 Adriana Guzmán, del colettivo Feminismo Comunitario Antipatriarcal, "è stato utilizzato il fondamentalismo delle chiese per approfondire il razzismo, la stigmatizzazione delle persone, non solo di quelle legate al Movimiento al Socialismo, ma degli indigeni che hanno costruito il processo di cambiamento".

Intanto il contagio da Covid-19 continua a diffondersi, portando al collasso le strutture sanitarie. I dipartimenti più colpiti sono quelli di La Paz, Cochabamba, Beni e Santa Cruz. Non ci sono più posti letto disponibili in terapia intensiva e gli ammalati muoiono nelle proprie abitazioni, per strada oppure alla porta degli ospedali. Anche i tamponi sono insufficienti, mancano i reagenti e i pochi test realizzati nelle regioni dell'interno devono essere inviati a La Paz, con ritardi di giorni. Nel frattempo le cliniche private speculano sulla tragedia della pandemia: ogni giorno di ricovero per coronavirus costa l'equivalente di più di 1.500 dollari. In questo quadro è scoppiato lo scandalo dei 170 respiratori comprati dallo Stato a un'impresa spagnola. I medici segnalarono subito che quegli apparecchi erano adatti solo per le ambulanze e non servivano per trattamenti prolungati nel tempo. E ben presto si scoprì che il prezzo iniziale, 8.000 dollari l'uno, era stato gonfiato fino a raggiungere i 27.000 dollari. Per la truffa sono ora in carcerazione preventiva quattro persone, tra cui l'ex ministro della Sanità Marcelo Navajas, ma tra i sospettati figura anche il genero di Jeanine Añez.

16/6/2020


Colombia, in arrivo istruttori militari Usa

Un'unità della Security Force Assistance Brigade statunitense giungerà in giugno in Colombia con il pretesto di addestrare l'esercito locale nella lotta contro il narcotraffico. Lo ha annunciato il ministro della Difesa, Carlos Holmes Trujillo, secondo il quale gli istruttori svolgeranno compiti esclusivamente tecnici e non parteciperanno a operazioni militari. È l'avvio di "un piano di destabilizzazione della pace nel continente", sostiene in un comunicato il partito Farc, affermando che l'operazione fa parte della strategia di aggressione del governo Trump contro il Venezuela. Analoga posizione è stata espressa da Iván Cepeda, senatore del Polo Democrático.

Crescono intanto nel paese i casi di Covid-19 e aumenta la disperazione di quanti sono rimasti privi dei mezzi di sussistenza a causa del lockdown imposto per frenare il contagio. In molte zone gli aiuti promessi dal governo non sono mai arrivati: solo le organizzazioni sociali si stanno mobilitando per fronteggiare la situazione. E panni rossi alle finestre dei quartieri popolari segnalano le richieste di aiuto delle famiglie ormai alla fame.

L'estendersi della pandemia non ha però fermato la strage di dirigenti comunitari: le vittime quest'anno sono già una novantina. In marzo è stata uccisa Carlota Salinas Pérez, dell'Organización Femenina Popular, che si occupava di diritti delle donne nel dipartimento di Bolívar. Uomini armati hanno fatto irruzione nella sua casa e l'hanno obbligata a uscire e a percorrere alcuni metri prima di abbatterla a colpi d'arma da fuoco. In aprile, in un'area rurale del dipartimento del Cauca, è morto il leader sociale Alvaro Narváez. Con lui i killer hanno assassinato la moglie, il figlio e la nipote quindicenne: un altro figlio è rimasto ferito.

A fine marzo, rispondendo all'appello del segretario generale dell'Onu, António Guterres, che aveva invitato a sospendere ogni conflitto armato di fronte al diffondersi della pandemia, l'Ejército de Liberación Nacional aveva annunciato la cessazione unilaterale delle azioni militari dal primo al 30 aprile, come gesto umanitario "verso il popolo colombiano, che soffre la devastazione del coronavirus". Nel suo comunicato l'Eln aveva invitato il governo a riprendere il dialogo nella capitale cubana per concordare una sospensione bilaterale delle ostilità. Ma la proposta era caduta nel vuoto, come riconosceva il 12 aprile il Comando Centrale dell'organizzazione guerrigliera: "Né il governo Duque né le forze armate hanno avuto la grandezza di rispondere in maniera simile; al contrario hanno intensificato le loro operazioni militari". Nessuna tregua dunque, neppure in queste drammatiche circostanze.

29/5/2020


Brasile, il Pt chiede l'impeachment di Bolsonaro

Il Partido dos Trabalhadores insieme ad altre forze di sinistra, a 400 movimenti sociali e a noti giuristi ha presentato alla Camera la richiesta di mettere sotto accusa Jair Bolsonaro per attentato alla salute pubblica. Il Brasile è ormai ai primi posti nel mondo per numero di contagi da Covid-19. Le vittime sono oltre mille al giorno e siamo ancora ben lontani dal picco, che si prevede giungerà solo in luglio, ma il presidente attacca ogni giorno le norme di distanziamento sociale e più di una volta ha incontrato decine di sostenitori senza alcuna precauzione. Questa posizione lo ha portato in rotta di collisione con i governatori degli Stati più colpiti, São Paulo e Rio, che cercano di evitare il diffondersi del virus adottando misure di restrizione. "Bolsonaro non ha più le condizioni politiche, amministrative e umane per continuare a governare. Non ha empatia e deve essere allontanato il prima possibile perché costituisce una minaccia per il paese", ha dichiarato la presidente del Pt, Gleisi Hoffmann.

Per combattere la pandemia Bolsonaro non trova altra soluzione che raccomandare l'uso indiscriminato della clorochina, vista come un farmaco miracoloso. I ministri della Sanità Luiz Henrique Mandetta e Nelson Teich, entrambi medici, sono stati costretti a lasciare l'incarico uno dopo l'altro perché non allineati con la politica presidenziale. Li sostituisce ora Eduardo Pazuello, un generale senza alcuna esperienza nel settore; del resto i dicasteri sono ormai in gran parte occupati da esponenti delle forze armate. Già in febbraio, in sostituzione del deputato Onyx Lorenzoni, era stato designato a capo del gabinetto il generale Walter Souza Braga Netto: una nomina che aveva accentuato le tensioni con il potere legislativo.

Attorno a Bolsonaro si sta creando il vuoto. Non è solo il mondo scientifico a prendere le distanze, anche molti antichi alleati appaiono preoccupati dalle azioni di un capo dello Stato che ha innescato conflitti istituzionali senza precedenti appoggiando manifestazioni di stampo golpista, convocate per chiedere "la chiusura del Congresso e del Supremo Tribunal Federal". La richiesta di impeachment promossa dalla sinistra, la prima in forma collettiva, si aggiunge ad altre 31 domande di processo politico contro il capo dello Stato.

Il "superministro" della Giustizia Sérgio Moro, che aveva spianato la strada all'elezione di Bolsonaro condannando senza prove l'ex presidente Lula, si è dimesso in aprile dopo la decisione del capo dello Stato di rimuovere il comandante della Polícia Federal, Maurício Valeixo, per sostituirlo con un uomo di sua fiducia. L'ex ministro non ha risparmiato gli attacchi a Bolsonaro, accusandolo di aver cercato di insabbiare le indagini sui suoi figli, in particolare sul senatore Flávio, sospettato di riciclaggio e collegamenti con le milizie paramilitari. Nel frattempo il dicastero della Giustizia è stato affidato al pastore presbiteriano André de Almeida Mendonça.

Anche la politica estera brasiliana solleva critiche da destra e da sinistra. Celso Amorim, ministro degli Esteri dei governi Lula, e l'ex presidente Fernando Henrique Cardoso, del conservatore Partido da Social Democracia Brasileira, hanno firmato un documento in cui rimproverano all'attuale gestione di aver abdicato, nei rapporti con gli Stati Uniti, alla tradizione diplomatica ispirata alla Costituzione del 1988. Il testo sottolinea l'impossibilità di "conciliare l'indipendenza nazionale con la subordinazione a un governo straniero il cui programma politico dichiarato consiste nella promozione dei suoi interessi al di sopra di qualsiasi altra considerazione".

In marzo Bolsonaro aveva firmato un accordo militare con gli Usa e aveva incontrato il suo idolo, Donald Trump: secondo un comunicato congiunto, nella riunione tra i due capi di Stato era stata ratificata "l'alleanza strategica" tra i rispettivi paesi ed era stato ribadito l'appoggio alla "democrazia nella regione, includendo Guaidó e l'Asamblea Nacional venezuelana democraticamente eletta". Una chiara adesione di Brasilia alla politica antibolivariana di Washington, che potrebbe sfociare in un conflitto dalle conseguenze drammatiche per il continente.

Già in gennaio Bolsonaro aveva dimostrato il suo sostegno cieco agli interessi nordamericani sospendendo la partecipazione brasiliana alla Celac, la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños, proprio quando il messicano Andrés Manuel López Obrador stava per assumerne la presidenza temporanea. Un regalo agli Stati Uniti, nemici dichiarati di una Comunità che raggruppa tutte le nazioni dell'America Latina e dei Caraibi e che si pone come contraltare all'Oea.

22/5/2020


Gruppi mercenari tentano di sbarcare in Venezuela

Due attacchi in poco più di 24 ore. Il primo all'alba del 3 maggio quando un commando di mercenari, a bordo di due motoscafi provenienti dalla Colombia, ha tentato di sbarcare in territorio venezuelano sulla costa de La Guaira, nei pressi della capitale. L'incursione è stata respinta dalle forze armate bolivariane, con il bilancio di otto morti e due catturati; sequestrati veicoli e armi di grosso calibro. Il secondo nel pomeriggio del giorno successivo: gli invasori sono stati intercettati a Chuao, piccolo villaggio nello Stato di Aragua. Otto persone sono state arrestate; tra queste Antonio Sequea, uno dei capi dell'operazione, già noto per aver partecipato al tentato golpe del 30 aprile dello scorso anno.

I due tentativi di sbarco si collegano direttamente a un'azione bloccata il 26 marzo in Colombia e alla quale partecipava l'ex militare venezuelano Cliver Alcalá Cordibes, attualmente rifugiato negli Stati Uniti: uno dei mercenari caduto, l'ex capitano Robert Colina Pantera, era infatti membro del gruppo agli ordini di Alcalá. E proprio Colina, prima dell'attacco, aveva registrato un video in cui rivelava di essere il comandante del nucleo numero 3 dell'Operación Gedeón e che l'obiettivo era la "cattura degli elementi che stanno detenendo illegittimamente il potere".

A dirigere dall'esterno l'Operación Gedeón - come rivela un video diffuso in rete - sono lo statunitense Jordan Goudreau, ex combattente in Iraq e in Afghanistan e attualmente proprietario dell'impresa di sicurezza privata Silvercorp, e l'ex capitano Nieto Quintero. Goudreau ha chiamato in causa Juan Guaidó, presentando il contratto firmato dall'autoproclamato presidente, in cui questi si impegnava a versare una prima somma di un milione e mezzo di dollari (in realtà mai pagati) per finanziare l'operazione. Un ulteriore colpo alla già scarsa credibilità di Guaidó, che aveva negato qualsiasi legame con il fallito attacco e aveva addirittura liquidato l'azione come un montaggio del governo bolivariano.

Stesso atteggiamento ambiguo da parte dell'amministrazione Trump, che respinge ogni coinvolgimento nei piani golpisti, mentre si susseguono le dichiarazioni di alti funzionari che preannunciano cambiamenti al vertice in Venezuela. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha recentemente affermato di aver dato istruzioni in vista della prossima riapertura dell'ambasciata Usa a Caracas e il rappresentante speciale per il Venezuela, Elliot Abrams, ha ripetuto negli ultimi giorni che molte persone, un tempo vicine al presidente Maduro, stanno preparandosi ad abbandonarlo e a negoziare con rappresentanti statunitensi il piano di transizione proposto dal Dipartimento di Stato. Quanto al ruolo di Bogotá, sempre Goudreau ha rivelato che l'addestramento per l'operazione era in corso già da mesi in territorio colombiano. E l'esecutivo di Iván Duque - ha detto Cliver Alcalá - era al corrente dell'esistenza di questi campi militari.

Gli avvenimenti di inizio maggio hanno fatto salire nuovamente la tensione in Venezuela, che si mantiene in stato di allerta. I controlli effettuati negli ultimi giorni hanno permesso di procedere ad altri arresti: i detenuti si contano già a decine, tra cui i due statunitensi Luke Denman e Airan Berry, già membri della sicurezza di Donald Trump. Un'ulteriore conferma della partecipazione di ex militari nordamericani (chiamati "aquile") viene dall'audio di una conversazione del parlamentare dell'opposizione Hernán Alemán, da tempo ricercato dalla giustizia. Nella registrazione, resa pubblica dal governo di Caracas, Alemán afferma: "Alcune aquile sono già qui. Vedo tutto ormai in fase operativa".

Tra le ripercussioni dell'operazione vi è la rinuncia di Juan José Rendón, responsabile del "comitato di strategia" di Guaidó. A differenza del suo capo, Rendón ha ammesso di aver firmato il contratto con la Silvercorp ed è diventato il capro espiatorio del fallimento insieme al deputato Sergio Vergara, un altro dei firmatari e anch'egli dimissionario.

Il contratto, pubblicato da The Washington Post, prevedeva di "catturare/arrestare/rimuovere Nicolás Maduro, liquidare l'attuale regime e insediare al suo posto il presidente venezuelano riconosciuto, Juan Guaidó". In seguito Silvercorp avrebbe partecipato, per un periodo prorogabile di 450 giorni, al "ristabilimento della stabilità del paese". Per quest'ultimo compito l'impresa era autorizzata a usare ogni mezzo, fino all'eliminazione fisica della "minaccia" rappresentata dai sostenitori del legittimo governo.

19/5/2020


Attentato all'ambasciata cubana a Washington

Più di trenta colpi di fucile sono stati esplosi, all'alba del 30 aprile, contro la sede dell'ambasciata cubana a Washington. Gli spari hanno colpito non solo la facciata dell'edificio, il portone, le colonne dell'ingresso e la statua di José Martí, ma hanno provocato danni anche all'interno del palazzo. L'attentatore, che è stato arrestato, si chiama Alexander Alazo, 42 anni, nato a Cuba, ma residente nel Texas. Secondo la stampa statunitense soffriva da tempo di manie di persecuzione: si sentiva braccato dalla Sicurezza del suo paese d'origine.

Al di là dei problemi psichiatrici di Alazo, l'azione rientra in un clima di crescente ostilità dell'amministrazione Trump nei confronti dell'Avana: dall'aggressività del linguaggio (comprese le dure critiche alle missioni mediche all'estero) all'intensificazione del blocco, che non è stato mitigato neppure nel quadro dell'attuale pandemia. Non stupisce dunque che da parte del Dipartimento di Stato non vi sia stata alcuna condanna dell'accaduto. E alle richieste cubane di condurre un'indagine esaustiva sull'attentato Washington ha risposto con un'ennesima provocazione: l'inserimento dell'isola nell'elenco dei paesi che non cooperano pienamente nella lotta antiterrorista. L'accusa è quella di aver ospitato sul suo territorio la delegazione dell'Ejército de Liberación Nacional, la guerriglia colombiana che nel 2017 aveva avviato trattative di pace con il governo di Bogotá. Cuba era stata cancellata dalla lista nera (in cui figurano anche Venezuela, Iran, Siria e Corea del Nord) nel 2015, durante la presidenza Obama.

Se il 30 aprile non si sono fortunatamente registrate vittime, i rappresentanti cubani sono stati bersaglio negli anni di ripetuti, sanguinosi attacchi. Nel 1976 in Argentina, durante la dittatura militare, furono sequestrati Jesús Cejas Arias e Crescencio Galañena Hernández: i loro resti vennero rinvenuti solo pochi anni fa. Sempre nel 1976 Adriana Corcho ed Efrén Monteagudo furono uccisi da una bomba esplosa nell'ambasciata cubana in Portogallo. Nel 1980 a New York venne assassinato a colpi d'arma da fuoco Félix García Rodríguez, che faceva parte del corpo diplomatico accreditato presso le Nazioni Unite.

14/5/2020


Luis Sepúlveda, la voce dell'esilio

Si è spento il 16 aprile in Spagna, ucciso dal coronavirus, lo scrittore cileno Luis Sepúlveda, noto non solo per il suo importante apporto alla letteratura latinoamericana, ma per l’impegno politico che ha caratterizzato tutta la sua vita. Sepúlveda era nato nel 1949 a Ovalle, nella regione di Coquimbo. Il suo cognome materno, Calfucura, tradiva l’origine mapuche, di cui fu sempre orgoglioso: al popolo mapuche dedicò la Historia de un perro llamado leal, scritta nel 2016.

Militante della sinistra fin da giovane, dopo il golpe di Pinochet fu arrestato e incarcerato per oltre due anni. Partì poi per l’esilio, divenendo la voce dei tanti oppositori alla dittatura costretti a vivere lontano dal Cile. Viaggiò per gran parte dell’America Latina, entrando anche a far parte della Brigada Internacional Simón Bolívar con cui combatté in Nicaragua contro Somoza. Dopo il trionfo della Rivoluzione Sandinista si stabilì in Europa, prima in Svezia, poi in Germania e infine in Spagna.

Si fece conoscere a livello internazionale nel 1988 con il romanzo Un viejo que leía novelas de amor. Tra le altre sue opere vanno ricordate: Mundo del fin del mundo, Nombre de torero, Patagonia Express, Historia de una gaviota y del gato que le enseñó a volar, La rosa de Atacama, Fin de siglo, tradotte in decine di lingue diverse. Fu anche cineasta e giornalista.

Nella sua ultima colonna su Le Monde Diplomatique del 26 dicembre 2019 scriveva, riferendosi alla rivolta scoppiata nella sua patria: "La pace dell’oasi cilena è saltata in aria perché le grandi maggioranze hanno cominciato a dire no alla precarietà e si sono lanciate alla riconquista dei loro diritti perduti. Non c’è ribellione più giusta e democratica che quella di questi giorni in Cile. Reclamano una nuova Costituzione che rappresenti tutta la nazione e la sua diversità, reclamano il recupero di questioni tanto essenziali come l’acqua e il mare, anch’esso privatizzato. Reclamano il diritto a essere presenti e a essere soggetti attivi dello sviluppo del paese. Vogliono essere cittadini e non sudditi di un modello fallito per la sua mancanza di umanità, per l’assurdo offuscamento dei suoi gestori. E non c’è repressione, per dura e criminale che sia, in grado di fermare un popolo in marcia".

17/4/2020


Ecuador, tra pandemia e lawfare

Le foto dei corpi senza vita abbandonati nelle strade di Guayaquil, la località con il maggior numero di contagi da Covid-19, hanno fatto il giro del mondo, immagini eloquenti del disastro dell'assistenza pubblica nel paese. Tantissime anche le salme rimaste nelle abitazioni per giorni, in mancanza di medici che stilassero il certificato di morte e per la chiusura di molte agenzie di pompe funebri. Del triste lavoro di recupero è stata infine incaricata un'apposita task force, che ha rivelato di aver raccolto in breve tempo, solo in città, oltre 700 cadaveri. Sono le conseguenze drammatiche della pandemia, sommate ai tagli alla sanità attuati dall'amministrazione Moreno in base alle direttive del Fondo Monetario Internazionale. Così carenze di posti letto, di attrezzature, di personale sanitario hanno portato al collasso le strutture ospedaliere. La priorità del governo non è la salute dei cittadini, ma il pagamento del debito estero.

Nel paese è stato imposto il blocco delle attività produttive. Nessun provvedimento di tutela però è previsto per quanti vivono in condizioni precarie, lavoratori del settore informale e disoccupati che insieme rappresentano il 60% della popolazione economicamente attiva. Come denuncia Pablo Iturralde, del Centro de Derechos Económicos y Sociales, non esiste alcuna protezione neppure per quanti godono di un impiego fisso: "Al contrario, si è permesso al datore di lavoro di scalare i giorni di ferie dall'attuale quarantena. E come secondo provvedimento gli è stato consentito di sospendere il pagamento dei salari a tempo indeterminato". Inoltre, con l'istituzione dell'estado de excepción e poi del coprifuoco, l'esercito è tornato a pattugliare le strade e sono già numerose le denunce contro la violenza dei militari nei quartieri popolari.

Di fronte a questa drammatica situazione il livello di approvazione di Lenín Moreno è crollato al 4%. Per scongiurare una rielezione di Rafael Correa nelle presidenziali del 2021 la destra neoliberista ha fatto ricorso - con un copione già noto - allo strumento del lawfare: il 7 aprile l'ex presidente è stato giudicato colpevole di corruzione e condannato a otto anni di carcere e all'interdizione dai pubblici uffici per 25 anni.

Questa sentenza "fa parte di una trama messa a punto dal Dipartimento di Stato - afferma la parlamentare ecuadoriana Gabriela Rivadeneira, attualmente rifugiata in Messico, in un'intervista a Página/12 - I governi progressisti latinoamericani del primo decennio del secolo XXI sono stati una minaccia per gli Stati Uniti. Tutto quello che abbiamo fatto in tema di integrazione, di sovranità, la richiesta di dignità dei paesi, di libertà dei popoli hanno danneggiato i loro interessi geopolitici. L'arrivo di governi di destra nel continente (Bolsonaro, Duque, Piñera, il golpe in Bolivia) è stato accompagnato dal ritorno al Fmi, alla Banca Mondiale, all'United States Agency for International Development (Usaid), alla cooperazione militare nordamericana. Tutto questo va legato direttamente allo sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili che abbiamo qui. Così che quanto avvenuto non è casuale. Forma parte di un complesso di azioni volte a evitare che giungano nuovamente al potere, attraverso il voto popolare, presidenti in grado di spezzare questa logica monopolistica".

13/4/2020


Cuba, solidarietà su scala planetaria

Cuba in prima linea nella solidarietà alle popolazioni in lotta contro la pandemia. Negli stessi giorni in cui l'amministrazione Trump offriva alla compagnia farmaceutica tedesca CureVac una grossa somma di denaro per l'acquisto del vaccino in preparazione contro il Covid-19, con la clausola che il farmaco fosse riservato agli Stati Uniti (offerta rifiutata dall'impresa), il governo dell'Avana consentiva alla nave da crociera britannica MS Braemar di attraccare nel porto di Mariel, nonostante la presenza di casi di coronavirus a bordo. La nave aveva già chiesto ad altri paesi dei Caraibi il permesso di sbarco, ricevendo un netto rifiuto.

Una dimostrazione del diverso approccio di Cuba verso i popoli del mondo. Non è dunque sorprendente vedere come dall'isola siano partite, in questa congiuntura globale, numerose missioni mediche dirette verso numerosi paesi, compreso il nostro. Il 22 marzo, accolti con un lungo applauso, sono giunti in Italia i 52 specialisti destinati a operare nell'ospedale di Crema. Sempre in Europa, medici e infermieri cubani sono arrivati ad Andorra; sono inoltre presenti in Centro e Sud America (Nicaragua, Belice, Venezuela, Suriname) e in nove Stati caraibici, tra cui Giamaica e Haiti, mentre si preparano a portare il loro aiuto in Messico e nei dipartimenti francesi d'oltremare. E questo nonostante anche sull'isola si siano registrati numerosi contagi, dopo il primo caso di tre turisti italiani positivi al coronavirus. "Nostra patria è il mondo": così spiegano il loro altruismo i membri della Brigada Henry Reeve.

La Brigada prende il nome dal giovane statunitense Henry Reeve, morto nel 1876 combattendo per la libertà di Cuba dal dominio spagnolo. Nel 2005 il governo cubano aveva offerto assistenza agli abitanti di New Orleans colpiti dall'uragano Katrina. L'offerta era stata rifiutata da George W. Bush, ma Fidel Castro aveva deciso comunque di creare uno speciale contingente, composto da personale sanitario di entrambi i sessi specializzato nell'affrontare disastri naturali e gravi epidemie. Da allora la Brigada ha fronteggiato molte situazioni di crisi, dal terremoto ad Haiti (2010) all'epidemia di Ebola in Guinea, Liberia e Sierra Leone (2014), dal sisma in Nepal (2015) ai cicloni Idai e Kenneth in Mozambico (2019), per citarne solo alcune. Ma Cuba non aveva aspettato l'istituzione di questo contingente per portare il suo aiuto solidale in qualunque parte del globo. Anche in precedenza erano stati tantissimi gli interventi, fin dall'anno successivo alla Rivoluzione quando un'équipe medica era arrivata nel Cile ferito dal più disastroso terremoto della storia (in quell'occasione ad accompagnare i colleghi cubani c'era da parte cilena il dottor Salvador Allende). Tre anni dopo l'assistenza cubana sbarcava in Algeria, paese rimasto con ridotto personale sanitario dopo la partenza dei francesi.

Nel drammatico scenario dell'attuale pandemia, il blocco statunitense contro l'isola continua con le sue devastanti conseguenze. Un esempio: il carico di mascherine, kit diagnostici e ventilatori polmonari destinato a Cuba dall'imprenditore cinese Jack Ma, fondatore del colosso Alibaba, non ha potuto essere consegnato perché la compagnia statunitense contrattata per il trasporto all'ultimo momento si è tirata indietro, per non violare le restrizioni imposte dalla Casa Bianca. Il blocco era stato ulteriormente inasprito in gennaio, con la sospensione di tutti i voli charter tra gli Stati Uniti e le città cubane a eccezione della capitale (i servizi aerei commerciali con destinazione diversa dall'Avana erano già stati sospesi nell'ottobre scorso). Un ulteriore colpo contro il turismo e dunque contro la possibilità di accedere a divise estere.

8/4/2020


Contro il Venezuela i ricatti di Washington

Anche il Venezuela è impegnato nella lotta contro il Covid-19. Il 16 marzo, in presenza di un numero ancora limitato di contagi, è stata decretata la quarantena per prevenire il diffondersi del virus. Se in questa battaglia Caracas può contare sull'aiuto di Cuba e della Cina, la sua è pur sempre un'economia sottoposta al blocco statunitense; in più si è vista rifiutare dal Fondo Monetario Internazionale, con giustificazioni pretestuose, un prestito di cinque miliardi di dollari che sarebbero stati destinati all'emergenza sanitaria. Sfruttando questo momento di difficoltà dell'avversario, l'amministrazione Trump ha posto un preciso ricatto: come spiega un editoriale comparso su The Washington Post, se Maduro vuole che le sanzioni siano annullate dovrà accettare di collaborare con Guaidó e impegnarsi a celebrare nuove elezioni presidenziali.

Non solo. Con il chiaro intento di distrarre l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale dal disastro provocato dal coronavirus, Washington ha deciso di aumentare la pressione sul Venezuela. Il 26 marzo, nel più puro stile western, la giustizia statunitense ha posto una taglia di 15 milioni di dollari sulla testa di Nicolás Maduro: verrà corrisposta a chiunque apporti informazioni che possano portare al suo arresto. Nel caso di Diosdado Cabello, presidente dell'Asamblea Nacional Constituyente, il premio scende a 10 milioni; ricompense sono state promesse anche per la cattura di altri alti funzionari del governo venezuelano. L'accusa per tutti è quella di narcotraffico, in complicità con gli ex guerriglieri delle Farc: avrebbero inondato gli Usa di cocaina fin dal 1999.

Un'accusa a cui non crede nessuno: come afferma Pino Arlacchi, ex vicesegretario delle Nazioni Unite e massimo esperto di lotta al traffico di stupefacenti, in un'intervista al sito web ilPeriodista, "sono falsità clamorose. In oltre quarant'anni ai vertici dell’antidroga mondiale non mi è mai capitato di dovermi occupare di Venezuela: non si trova un solo rigo nei documenti dell'Onu e nemmeno della Dea statunitense". E se l'iniziativa mirava a dividere le forze armate venezuelane ha fallito il suo scopo: i vertici militari hanno infatti ribadito immediatamente il loro appoggio al capo dello Stato.

Cinque giorni dopo l'annuncio della taglia, il segretario di Stato Mike Pompeo e il rappresentante speciale per il Venezuela Elliot Abrams hanno illustrato la roadmap "per la transizione democratica" nel paese: prevede la nomina, da parte dell'Asamblea Nacional presieduta da Guaidó, di un Consejo de Estado incaricato di convocare nuove elezioni presidenziali e legislative. In tale organismo non dovrebbero figurare né Maduro né Guaidó: quest'ultimo è ormai considerato poco utile ai piani statunitensi, dal momento che gran parte dell'opposizione gli ha voltato le spalle.

L'unico appoggio all'autoproclamato presidente si trova all'estero: nel viaggio internazionale intrapreso tra gennaio e febbraio aveva ottenuto qualche riconoscimento (nel Congresso Usa era stato applaudito da democratici e repubblicani), ma all'evento preparato per il suo ritorno in patria aveva trovato ben pochi sostenitori. Il falso attentato ai suoi danni, avvenuto a fine febbraio a Barquisimeto, era stato presto smascherato e il 10 marzo l'ennesima mobilitazione antichavista aveva registrato una scarsa partecipazione. Quello stesso giorno il leader di Acción Democrática, Ramos Allup, preso atto del fallimento della via golpista, annunciava la decisione dello storico partito di partecipare alle legislative di quest'anno, allineandosi alla scelta di altri gruppi oppositori.

Come ultimo gesto di intimidazione, il primo aprile Donald Trump ha comunicato l'avvio di una massiccia operazione antidroga nel Pacifico e nel Mar dei Caraibi, "la più grande d'Occidente", con forze aeree e navali e la partecipazione di 22 paesi, per fronteggiare la "crescente minaccia" di "narcotrafficanti e terroristi", che sarebbero pronti ad approfittare della pandemia per inondare il mercato statunitense.

Di fronte a questa escalation di attacchi Maduro si è rivolto direttamente ai cittadini statunitensi con una lettera aperta, sollecitandoli a non permettere che il loro paese "venga trascinato, ancora una volta, a una guerra interminabile, a un altro Vietnam o un altro Iraq, ma questa volta più vicino a casa" e facendo loro un appello "perché pongano un freno a questa pazzia". "In Venezuela non vogliamo un conflitto armato nella nostra regione - scrive Maduro - Vogliamo rapporti fraterni, di cooperazione, intercambio e rispetto".

6/4/2020


8 marzo, l'onda femminista in America Latina

L'8 marzo le piazze e le strade dell'America Latina si sono riempite di donne di ogni età. Combattive, determinate, decise a rivendicare i propri diritti e a dire no al machismo in tutte le sue forme. Erano due milioni secondo la Coordinadora 8M a Santiago, un interminabile serpente colorato diretto verso Plaza de la Dignidad, come è stato ribattezzato il centro della rivolta di questi ultimi mesi. "Il nuovo Cile lo faremo tutte noi, con le nostre mani", così l'attrice Natalia Valdebenito nel suo improvvisato discorso. Il collettivo femminista Las Tesis, con la performance Un violador en tu camino, ha fornito il tema della mobilitazione. Altre massicce manifestazioni si sono tenute a Valparaíso, Concepción, Osorno, Puerto Montt.

In Messico decine di migliaia di donne hanno espresso la propria indignazione contro la violenza di genere, in un paese in cui ogni giorno si registra una decina di femminicidi, la maggior parte dei quali resta impunita. Una marea viola ha occupato il centro della capitale, marciando dal Monumento a la Revolución allo Zócalo. Manifestazioni anche a Mérida, Querétaro, Oaxaca, Cuernavaca.

A Buenos Aires un grande corteo si è diretto verso il palazzo presidenziale, la Casa Rosada: le manifestanti portavano rose e cartelli con i nomi delle tante vittime di femminicidio. Un'altra battaglia in campo è quella per il diritto d'aborto: dopo le grandi lotte del movimento, il governo Fernández dovrebbe inviare a breve al Congresso un progetto di legge in merito. La Chiesa cattolica però non rinuncia all'opposizione e proprio nella giornata dell'8 marzo ha celebrato una messa "in favore della vita" di fronte alla Basilica di Luján.

A São Paulo e in altre città del Brasile tantissime donne hanno manifestato contro il presidente Bolsonaro, noto per le sue espressioni machiste. In Colombia sono scese in piazza a migliaia per condannare l'inerzia del governo, che non fornisce protezione alle leader sociali, e per denunciare la responsabilità dei membri della forza pubblica in molti casi di violenza. Anche in Centro America le femministe si sono mobilitate: in Salvador per la depenalizzazione dell'aborto (nel paese vige una delle leggi più restrittive in materia), in Guatemala per denunciare l'impunità di cui continuano a godere i responsabili della morte, tre anni fa, di una quarantina di bambine e adolescenti nell'incendio di un centro d'accoglienza per minori. Prima del rogo le giovani ospiti dell'Hogar Seguro Virgen de la Asunción avevano segnalato a più riprese maltrattamenti e abusi.

9/3/2020


Puerto Rico, la morte dell'indipendentista Rafael Cancel

Si è spento il 2 marzo, a 89 anni, Rafael Cancel Miranda, ultimo sopravvissuto del gruppo di indipendentisti che nel 1954 furono protagonisti di uno storico episodio. Il primo marzo di quell'anno Cancel Miranda, Lolita Lebrón, Irving Flores Rodríguez e Andrés Figueroa Cordero, membri del Partido Nacionalista de Puerto Rico, fecero irruzione sparando nella sede del Congresso Usa, per attirare l'attenzione mondiale sul regime coloniale in atto nel loro paese. La data era stata scelta come segno di protesta contro quanto deciso dal governo di Washington il primo marzo 1917, quando la cittadinanza statunitense era stata estesa agli abitanti dell'isola perché lo Zio Sam aveva bisogno di reclutare soldati da mandare al fronte della prima guerra mondiale.

Per quell'assalto Cancel fu condannato a 84 anni di carcere, Lebrón a 50 anni; Flores e Figueroa a 75 anni. Nel 1979 però la pressione internazionale convinse l'allora presidente Jimmy Carter ad accettare lo scambio di prigionieri proposto da Fidel Castro: gli indipendentisti portoricani contro altrettante spie statunitensi. Cancel, Lebrón e Flores vennero dunque liberati (Figueroa era stato rilasciato due anni prima perché malato in fase terminale) e tornarono in patria, dove furono ricevuti come eroi. Insieme a loro lasciò la prigione Oscar Collazo López, anch'egli appartenente al Partido Nacionalista, che era stato arrestato nel 1950 per aver attentato alla vita del presidente Truman.

Dopo la sua scarcerazione Rafael Miranda continuò a battersi per la libertà di Puerto Rico e degli altri paesi del Sud del mondo e si fece conoscere come poeta e come scrittore. Nel dicembre dello scorso anno era stato pubblicato l'ultimo dei suoi libri, Más allá del espejismo.

Come raccontava nel 2005 la giornalista messicana Blanche Petrich, Cancel viaggiava senza passaporto, unicamente con la patente e il suo certificato di nascita. Nonostante tutte le difficoltà che questo comportava nell'attraversare le frontiere, rifiutava di portare con sé un documento che lo indicava come cittadino statunitense. "Se quando sono stato processato per terrorismo in un tribunale di Washington nel 1954 - sosteneva - non ho riconosciuto la legalità dei miei giudici e dei miei carcerieri, tantomeno lo farò adesso".

3/3/2020


Nicaragua, la scomparsa di Ernesto Cardenal

"Sono poeta, sacerdote e rivoluzionario": così si definiva Ernesto Cardenal Martínez, grande figura di intellettuale e di militante per la liberazione dei popoli, morto il primo marzo a Managua a 95 anni. Esponente della Teologia della Liberazione, impegnato nella lotta sociale e politica del suo paese, Cardenal fu una figura fondamentale della Rivoluzione Sandinista.

Nato a Granada, aveva frequentato la scuola in Nicaragua per poi seguire il corso di letteratura presso l'Unam, l'Universidad Nacional Autónoma de México. Alla fine degli anni Quaranta aveva proseguito gli studi a New York e aveva poi viaggiato in Europa, passando anche per l'Italia. Tornato in patria, aveva preso parte alla lotta contro la dinastia dei Somoza e nello stesso tempo aveva iniziato a farsi conoscere pubblicando le sue prime opere sulla rivista bilingue El Corno Emplumado, ponte tra la cultura latinoamericana e quella statunitense.

Entrato come novizio nell'Abbazia di Nostra Signora del Getsemani, nel Kentucky, ricevette gli ordini sacerdotali nel 1965 e fu tra i fondatori della comunità religiosa di Solentiname, un'isola nel Lago di Nicaragua che divenne il punto di riferimento per il cattolicesimo progressista latinoamericano. Diede un importante apporto alla lotta del Frente Sandinista de Liberación Nacional e, dopo l'abbattimento nel 1979 della dittatura di Anastasio Somoza, divenne ministro della Cultura, carica che mantenne fino al 1987. Fu proprio la sua partecipazione al governo sandinista che gli costò il severo rimprovero di papa Giovanni Paolo II, accanito avversario di ogni opzione di sinistra. Nel 1984 Wojtyla lo sospese a divinis e solo nel febbraio dello scorso anno papa Francesco lo riammise al ministero sacerdotale. Nel 1994 Ernesto Cardenal ruppe con il Fsln criticando la direzione personalistica di Daniel Ortega.

Tra le sue opere poetiche ricordiamo Hora Cero, Epigramas, Salmos, Oración por Marilyn Monroe y otros poemas, El Estrecho Dudoso, Mayapán, Homenaje a los indios americanos, Canto nacional, Oráculo sobre Managua, Canto a un país que nace, Tocar el cielo, Vuelos de victoria, Quetzalcóatl, Los ovnis de oro, Cántico Cósmico, El telescopio en la noche oscura, Somos polvo de estrellas, Hijos de las estrellas. Molti i riconoscimenti ricevuti, dal Premio Iberoamericano de Poesía Pablo Neruda alla Orden de la Liberación Cultural Rubén Darío al Premio Reina Sofía de Poesía Iberoamericana.

Nel 2003 fu insignito a Cuba della Orden José Martí, "per la sua traiettoria letteraria e la sua difesa incondizionata della Rivoluzione Cubana". Per Cardenal l'esperienza sull'isola caraibica fu fondamentale: "la più importante della mia vita dopo la conversione religiosa - raccontò in seguito - Fu in realtà una conversione alla rivoluzione. Prima credevo che dovessimo cercare un terzo cammino in America Latina, ma a Cuba scoprii che il cammino era il loro e che la loro rivoluzione era molto buona e avevo il dovere di appoggiarla".

2/3/2020


El Salvador, il presidente cool che parla con Dio

Si era autodefinito in Twitter "il presidente più guapo e più cool del mondo". I social network sono stati da lui ampiamente usati per giungere alla presidenza del Salvador, conquistando gran parte del voto giovane. Ma a quanto pare la massima carica dello Stato non gli basta: adesso cerca di liberarsi di qualsiasi opposizione per assicurarsi, con l'appoggio delle forze armate, il controllo totale del paese. Questo almeno il legittimo sospetto sorto dopo l'irruzione di Nayib Bukele nell'aula dell'Asamblea Legislativa, accompagnato da agenti di polizia e militari in assetto di guerra, per ottenere dai parlamentari l'approvazione immediata di un prestito di 109 milioni di dollari destinati alla modernizzazione delle forze armate per la lotta contro le maras. Un evidente pretesto, considerando che il valore dell'economia salvadoregna si aggira sui 29 miliardi di dollari e che l'endemico problema delle bande criminali non verrà certo risolto con questa esigua somma.

I deputati, convocati domenica 9 febbraio in sessione straordinaria dallo stesso Bukele, si sono rifiutati di obbedire all'imposizione: solo una piccola minoranza si è presentata nella sede del Parlamento, circondata dall'esercito. Entrato nell'aula il presidente ha detto: "La decisione che prenderemo la mettiamo nelle mani di Dio" e si è messo a pregare. È poi uscito per rivolgersi ai suoi sostenitori (peraltro non numerosi), che aveva chiamato all'insurrezione nel caso i parlamentari non si fossero piegati. Visto l'insuccesso della manovra perché l'Asamblea Legislativa era semivuota, ha tranquillizzato i convenuti assicurando che Dio gli aveva comandato di essere paziente: avrebbe dunque concesso una tregua di una settimana.

L'episodio è stato condannato dal presidente del Parlamento, il conservatore Mario Ponce, a nome di tutti gli 84 deputati (compresi i membri della Gran Alianza por la Unidad Nacional che aveva sostenuto Bukele nella sua corsa presidenziale). Il Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional ha definito proprie di una dittatura le minacce del capo dello Stato e la Corte Suprema de Justicia gli ha ordinato di astenersi dall'uso della forza armata al di fuori di quanto stabilito dalla Costituzione. Si è trattato di "un golpe contro la democrazia" hanno dichiarato le organizzazioni della società civile, non nascondendo il timore che i mezzi richiesti dal governo in funzione antimaras vengano invece destinati alla repressione delle proteste popolari. Da quando è salito al potere, Bukele si è lanciato in una persecuzione dei dipendenti pubblici legati al Fmln, mentre sul piano internazionale ha rotto le relazioni con il Venezuela Bolivariano e ha promesso di votare per la rielezione di Almagro a segretario generale dell'Oea.

12/2/2020


Perù, Apra e fujimorismo i grandi sconfitti nelle legislative

È un Congresso frammentato quello emerso dalle elezioni legislative del 26 gennaio: i 130 deputati si suddivideranno in nove diversi gruppi parlamentari. Il partito di maggioranza relativa, Acción Popular (centrodestra), ha conquistato 25 seggi; segue Alianza para el Progreso (destra) con 23. Il voto, che ha visto un astensionismo del 25% e una percentuale del 20% di voti nulli o bianchi, ha riservato alcune sorprese. Clamorosa la sparizione dell'Apra, la formazione fondata da Haya de la Torre nel 1924, il cui leader Alan García si era suicidato in aprile.

Le consultazioni hanno portato in primo piano formazioni pressoché sconosciute come il Frepap, Frente Popular Agrícola del Perú, braccio politico dell'Asociación Evangélica de la Misión Israelita del Nuevo Pacto Universal: si tratta di un movimento evangelico fondamentalista che finora non aveva raccolto più di tre deputati e questa volta è balzato a 15. Un altro inaspettato successo è quello dell'Unión por el Perú (13 parlamentari), il cui attuale leader è il fratello dell'ex presidente Ollanta Humala, Antauro. Ex militare, Antauro è in carcere per aver capeggiato nel 2005 una rivolta contro il governo Toledo. La sua ideologia, l'etnocacerismo, coniuga l'evocazione del passato incaico con un nazionalismo su basi etniche.

Non è andata bene invece alla sinistra nel suo complesso: dopo i buoni risultati del 2016, quando aveva ottenuto venti seggi, in queste elezioni ha pagato il prezzo delle sue divisioni. Tre formazioni, Perú Libre, Juntos por el Perú (che aveva stretto un accordo elettorale con il movimento Nuevo Perú di Verónika Mendoza) e Renacimiento Unido Nacional, non sono riuscite a raggiungere il quorum. Solo il Frente Amplio, ora su posizioni di centrosinistra, si è aggiudicato nove deputati.

Il candidato più votato è l'ex generale Daniel Urresti, di Podemos Perú, accusato negli anni Ottanta, quando era capitano dell'esercito nella zona di Ayacucho, di numerose violazioni dei diritti umani tra cui l'omicidio del giornalista Hugo Bustíos. Rinviato a giudizio per questo caso, nel 2018 con una discussa sentenza Urresti era stato dichiarato innocente, ma l'anno scorso la Corte Suprema ha annullato l'assoluzione: il processo dovrà dunque essere rifatto. Come ministro dell'Interno nel governo Humala, Urresti si era presentato come il campione della lotta alla criminalità, con una politica di mano dura che gli ha garantito una base elettorale.

Da registrare infine il crollo del partito di Keiko Fujimori, Fuerza Popular, che è sceso da 73 a 15 seggi. La convocazione di elezioni anticipate, decisa dal presidente Martín Vizcarra il 30 settembre proprio per spezzare il monopolio fujimorista, aveva incontrato da subito l'appoggio della stragrande maggioranza della popolazione, spesso scesa in piazza contro una classe politica corrotta e screditata al grido di Que se vayan todos.

Già in occasione della festa nazionale del 28 luglio Vizcarra aveva lanciato la proposta di accorciare di un anno la durata della legislatura e del mandato presidenziale, che dovevano scadere entrambi nel 2021. Proposta bocciata da Fuerza Popular e suoi alleati, che avevano poi tentato di eleggere sei nuovi membri del Tribunal Constitucional: l'obiettivo era il controllo di questo organismo, con cui garantirsi la protezione per i molti casi di corruzione e la liberazione di Keiko Fujimori, in detenzione preventiva sotto l'accusa di riciclaggio.

Per bloccare la manovra, Vizcarra aveva inviato al Congresso un progetto volto a cambiare il meccanismo di nomina dei magistrati del massimo tribunale, chiedendo su questo un voto di fiducia. Non ottenendolo, aveva fatto uso delle sue prerogative costituzionali per sciogliere il Parlamento. La fine della legislatura era stata accolta favorevolmente dai partiti della sinistra e della destra moderata ed era stata festeggiata dall'opinione pubblica. I fujimoristi, gridando al golpe, avevano tentato un'ultima reazione decretando la sospensione di Vizcarra e la sua sostituzione con la vicepresidente Mercedes Aráoz. Quest'ultima però, priva di ogni sostegno, aveva rassegnato le dimissioni dopo 24 ore. Il braccio di ferro si era concluso così con la vittoria del capo dello Stato. Quanto a Keiko, riusciva a uscire dal carcere in novembre, ma veniva nuovamente arrestata a fine gennaio.

7/2/2020


Haiti, dieci anni fa il terremoto

Dieci anni fa, esattamente il 12 gennaio 2010, un terremoto di 7,3 gradi della scala Richter devastava Haiti, uccidendo 316.000 persone e lasciando un milione e mezzo di persone senza tetto. Al sisma si aggiungeva, nell'ottobre dello stesso anno, l'epidemia di colera portata dai militari della Minustah, la Missione di Stabilizzazione dell'Onu, che provocava almeno 10.000 morti (secondo alcuni esperti, sarebbero in realtà 50.000). Anni dopo il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, riconosceva la responsabilità dei caschi blu, ma ai familiari delle vittime non veniva assegnato alcun indennizzo.

Nel 2017 la Minustah ha lasciato il posto alla Missione dell'Onu per l'Appoggio alla Giustizia (Minujusth), che ha terminato il suo mandato nell'ottobre dello scorso anno. E in dicembre si è appreso di un altro lascito dei caschi blu. A rivelarlo uno studio accademico pubblicato sul sito web The Conversation: almeno 265 bambini (probabilmente molti di più) sono nati da donne e ragazzine povere, a seguito di uno stupro o dopo un rapporto accettato in cambio di un pasto.

A distanza di dieci anni dal terremoto gran parte della popolazione abita ancora in rifugi di fortuna, senza accesso all'acqua potabile, sopravvivendo quotidianamente con meno di due dollari. L'economia è in grave crisi, l'inflazione continua a salire, la disoccupazione si aggira sul 70%. E quanti possono vantare un lavoro spesso guadagnano solo l'equivalente di 5 dollari al giorno.

Già nel 2018 era scoppiata una rivolta popolare contro il previsto rincaro del prezzo dei combustibili, deciso su pressione del Fondo Monetario Internazionale. Le proteste, che sono riprese con forza nel febbraio 2019 e da allora non si sono quasi mai fermate, chiedono le dimissioni del presidente Jovenel Moïse e un cambiamento reale del sistema. La risposta è stata una sanguinosa repressione, che ha già provocato oltre una ventina di morti e centinaia di feriti. Moïse, membro del partito di destra Tèt Kale, è stato eletto nel novembre 2016 con un contestato voto e un astensionismo record. Imprenditore del settore bananiero, gode dell'appoggio delle ricche famiglie locali e dell'amministrazione statunitense.

Su di lui pesano accuse di corruzione: si sarebbe intascato parte degli oltre 4 miliardi di dollari che il Venezuela, attraverso PetroCaribe, aveva destinato allo sviluppo del paese. Il governo bolivariano è sempre stato in prima fila negli aiuti ad Haiti: nonostante questo, Moïse si è allineato a quegli Stati che non hanno riconosciuto l'elezione di Nicolás Maduro. E il 7 gennaio di quest'anno ha ricevuto il segretario generale dell'Oea, Almagro, che gli ha assicurato il suo pieno sostegno. In compenso Haiti, a fine mese, ha annunciato il suo ingresso nel Grupo de Lima.

Il 13 gennaio è terminato il mandato della Camera e di due terzi del Senato e Moïse ha fatto sapere che la situazione attuale non permette di organizzare elezioni legislative e che quindi governerà per decreto. Haiti è anche da mesi senza governo dopo le dimissioni, uno dopo l'altro, di diversi primi ministri. Non stupisce che le opposizioni abbiano denunciato la "deriva dittatoriale" del paese.

30/1/2020


Un'Asamblea Nacional con due presidenti

Dal 5 gennaio il Venezuela ha due presidenti dell'Asamblea Nacional. Da una parte Juan Guaidó, che nel 2019 aveva utilizzato questa carica per autoproclamarsi capo dello Stato e promuovere maldestri tentativi golpisti. Dall'altra Luis Parra, eletto dall'opposizione con l'appoggio dei deputati filogovernativi.

Guaidó, consapevole di non poter contare sui voti necessari alla riconferma, si è sottratto con vari pretesti al confronto in aula e si è ritirato nella sede del giornale di destra El Nacional, dove si è fatto rieleggere dai suoi seguaci. Il giornalista Atilio Boron ha ricostruito la sceneggiata sulla base dei video diffusi in Internet: "Nonostante l'esistenza del quorum e la presenza dei deputati di tutte le forze politiche, il presidente dell'Asamblea uscente, Juan Guaidó, si è rifiutato di entrare nel Palacio Legislativo e di avviare la sessione, come era suo dovere, rimanendo all'esterno della sede parlamentare e pretendendo di far entrare a forza quattro deputati che, per diverse ragioni, erano stati dichiarati decaduti dal Tribunale Supremo. Nelle registrazioni lo si sente dire: 'Se loro non entrano, non entro neppure io'. Quelli alla fine sono entrati, ma lui è rimasto fuori. Va sottolineato che nessuno di questi aveva partecipato alle sedute dell'attuale periodo legislativo e che Guaidó, come presidente dell'Asamblea, non aveva in nessun momento preteso la loro presenza".

Si è giunti così all'aperta rottura all'interno dell'opposizione: all'ala oltranzista, che punta allo scontro aperto con l'appoggio di Washington anche a costo di scatenare una guerra civile, si contrappone un'ala più moderata, rafforzata sia dal chiaro fallimento dei tentativi di rovesciare con la forza il governo Maduro, sia dagli scandali di cui si sono resi protagonisti Guaidó e la sua cricca, che si sono appropriati per fini personali di parte dei soldi inviati dalla Casa Bianca per finanziare i piani eversivi.

Gli Stati Uniti comunque continuano a puntare su Guaidó: hanno subito riconosciuto la sua "riconferma" a presidente del Parlamento anticipando così le loro prossime mosse: il disconoscimento del risultato delle elezioni legislative che proprio l'Asamblea presieduta da Parra dovrà rendere possibili attraverso il rinnovo del Consejo Nacional Electoral. Un ottimo pretesto per un eventuale intervento armato.

Intanto si registrano nuove azioni di bande armate antichaviste. All'alba di domenica 22 dicembre è stata attaccata un'unità dell'esercito nello Stato di Bolívar. Gli assalitori hanno ucciso un ufficiale della Guardia Nacional Bolivariana e sono riusciti a impadronirsi di un carico di armi, in seguito recuperato in parte quando sei degli attaccanti sono stati catturati. Il governo di Caracas ha denunciato l'appoggio al gruppo da parte di Brasile e Colombia. Una settimana prima era stato reso noto l'arresto di alcuni cospiratori che pianificavano l'assalto a due caserme nello Stato di Sucre.

7/1/2020


America Latina 2020, un panorama contraddittorio

Ogni nuovo anno si apre ricordandoci la storica vittoria di Cuba, il primo gennaio 1959. Uno stimolo a continuare la battaglia per un mondo più giusto e più umano. Un traguardo che appare lontano se guardiamo all’umanità di oggi, sempre più divisa tra una ristrettissima élite, che detiene potere e ricchezza, e la stragrande maggioranza, che lotta quotidianamente per sopravvivere. Lo riafferma in questi giorni l’Oxfam: l’1% più ricco del pianeta detiene il 47,2% della ricchezza totale, mentre la metà più povera può contare solo sullo 0,4%.

Proprio per questo la sfida portata avanti da una piccola isola, a pochi chilometri dalla maggiore potenza mondiale, si mostra in tutta la sua grandezza. In questi decenni ha remato controcorrente, garantendo ai suoi abitanti alimentazione, istruzione, assistenza sanitaria, sicurezza sociale, accesso alla cultura, beni senza i quali una vita dignitosa non è possibile. Testimoniando così la possibilità di una politica diversa e servendo da esempio ad altre esperienze che si sono sviluppate soprattutto nel continente latinoamericano. Tutto questo spiega l’accanimento degli Stati Uniti e dei suoi alleati contro il modello cubano e contro qualunque tentativo di emularlo. Un accanimento che - se non è riuscito a piegare Cuba - ha ottenuto purtroppo qualche successo, come il cruento rovesciamento del governo di Evo Morales in Bolivia.

L’inizio del 2020 ci presenta, se guardiamo in particolare all’America Latina, un panorama contraddittorio. Da una parte la vittoria del campo progressista in Argentina, la resistenza del Governo Bolivariano in Venezuela (contro tutti i tentativi eversivi portati avanti dall’autoproclamato presidente Juan Guaidó), le trasformazioni in atto nel Messico di López Obrador. Dall’altra, oltre alla drammatica situazione in Bolivia, la sconfitta del Frente Amplio in Uruguay, la politica di estrema destra di Bolsonaro in Brasile.

In Centro America, al trionfo a Panama di Laurentino Cortizo, che ha promesso lotta alla povertà e una maggiore uguaglianza sociale, fanno da contraltare l’insediamento dell’ennesimo governo conservatore in Guatemala e la svolta a destra in Salvador, dove il candidato del Frente Farabundo Martí ha perso contro Nayib Bukele, un personaggio che si presenta come "antisistema", ma che in realtà rappresenta gli interessi dell’oligarchia di sempre.

Ad alimentare la speranza c’è però la resistenza indigena in Bolivia e il risveglio dei movimenti di protesta, che hanno portato in piazza decine di migliaia di persone in Ecuador, in Colombia e soprattutto in Cile. Il paese noto per il suo "miracolo economico" ha mostrato la vera faccia del neoliberismo: le enormi disuguaglianze, i pesanti indebitamenti delle famiglie per comprare i beni essenziali, per curarsi e per far studiare i propri figli.

Delle lotte in corso in tutto il mondo si è parlato all’Avana dal primo al 3 novembre, durante l’Encuentro Antimperialista de Solidaridad, por la Democracia y contra el Neoliberalismo. Per tre giorni i rappresentanti di 789 organizzazioni di 86 nazioni hanno discusso, si sono confrontati, hanno condiviso esperienze. Tante lingue e culture diverse, unite dal desiderio di opporsi alla disumanizzazione capitalista e con l’obiettivo di unificare le forze progressiste del pianeta.

4/1/2020

Latinoamerica-online.it

a cura di Nicoletta Manuzzato