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Dalle politiche partecipative in Brasile

una riflessione sulla questione del potere

Alessandro Vigilante

Come amava ricordare il rivoluzionario Jean-Paul Sartre: “Siamo quelli che affermano che i fini giustificano i mezzi, ma aggiungiamo una correzione indispensabile: sono i mezzi che definiscono i fini”. Il filosofo aveva ben compreso che il nostro “fine” sarà caratterizzato comunque dai “mezzi” che utilizziamo per tendervi. L’importante orizzonte “per cosa” lottiamo sarà plasmato intrinsecamente dal “come” percorriamo il cammino della nostra emancipazione.

Si tratta quindi di riallacciare il matrimonio tra Etica ed Estetica, poiché dobbiamo avere sempre ben presente che - come esseri umani mortali, definiti da una data di nascita, una vita e una morte - “la meta è il viaggio”, come afferma giustamente la sapiente cultura sufi. L’obiettivo non è un ipotetico fine predeterminato e preconfezionato da raggiungere un giorno nel futuro, ma proprio il pregnante cammino lungo il quale costruiamo le nostre lotte emancipatorie. In altre parole, la maniera in cui si sviluppa il processo determina l'esito della missione. Del resto anche Marx, nell’Ideologia tedesca, chiamava Comunismo “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”.

Inoltre, parafrasando un concetto attribuito ad Einstein: nessuna crisi può essere risolta dalle stesse modalità di relazione di potere che l’hanno generata. Dopo le vicissitudini storiche affrontate nel Novecento, dovremmo aver compreso che, se accettiamo che per costruire il nuovo potere popolare dobbiamo agire (anche) attraverso forme repressive (dittatoriali e autoritarie) simili a quelle usate storicamente dall'attuale classe dominante, non faremo che riprodurre uno schema di potere che fatalmente finirà per sottostare al paradigma della sopraffazione; e che quindi forse sostituirà una classe con un'altra al potere, ma non arriverà mai e in nessun modo all'obiettivo della eliminazione delle classi. Ricordiamo a tal proposito i maiali della fattoria di Orwell...

L'unica maniera per mettere in moto un processo emancipatorio autentico e rivoluzionario sta nell’elaborazione di una strategia che non ripercorra gli stessi errori del passato. Sono da scartare - o sorpassare, se vogliamo - tanto una metodologia che contempli semplici riforme superficiali della "democrazia liberale" come attualmente la conosciamo, quanto un'altra che invece imponga dall’alto con la forza dell’autorità misure e leggi promulgate esclusivamente da una parte della società (una classe, quale poi?) che si colloca alla guida dello Stato.

"Libertà è partecipazione", ma non basta riempirsi la bocca di pur giuste parole d’ordine espresse in entusiasmanti canzoni, bisogna sviluppare le forme istituzionali in grado di far funzionare il concetto. È indispensabile far diventare utile e redditizia la partecipazione, affinché sempre più persone delle masse popolari la adottino, la pratichino, la apprezzino; con entusiasmo. Il popolo ci deve guadagnare con la partecipazione volontaria alla gestione della cosa pubblica, senza essere costretto a perdere qualcosa che già possiede, come il tempo libero - per esempio - o le proprie limitate risorse finanziarie.

Nella nostra fase storica, il potere istituzionale che conta si stabilisce certamente a livello dello Stato-Nazione, soprattutto nelle relazioni internazionali. Ma la gestione del potere a livello locale, se non è delegata anche ai soggetti coinvolti in prima persona, non raggiungerà mai l'obiettivo di soddisfare la maggioranza del popolo. Quando il potere si esercita esclusivamente in luoghi distanti, nella capitale dello Stato-Nazione, spesso non riesce ad interpretare e a scegliere le politiche pubbliche di cui una certa realtà locale veramente ha bisogno. Il concetto chiave quindi per una concreta strategia rivoluzionaria è il coinvolgimento popolare, cosciente e competente - espresso a livello comunitario, nella partecipazione collettiva.

Giovane sognatore comunista italiano negli anni '70, avevo deciso di viaggiare per conoscere i luoghi in cui il socialismo reale veniva attuato. Nel 1981, nella Piazza della Città Vecchia a Praga, ho visto la maggioranza dei giovani cecoslovacchi seduti ai tavolini dei bar che - a fronte di bicchieroni di spremute d’arancia vendute al prezzo a quell'epoca equivalente a venti lire - bevevano invece tutti Coca-Cola, di cui una bottiglietta costava l'equivalente di un dollaro, cioè più di mille lire. Un prezzo enorme in quella realtà. La cosa mi stupì alquanto.

Due anni dopo, nel 1983, all'Habana, ho visto la maggioranza dei giovani cubani in centro città frequentare la Gelateria Coppelia, degustando squisiti gelati ai sapori freschi locali e bibite "Tropicola" (la versione cubana ed autarchica dell’originale statunitense), a prezzi irrisori ed accessibilissimi. Inutile dilungarsi sul fatto che mi è stata evidente la percezione che la Cecoslovacchia non dava l'impressione che avrebbe conservato a lungo quel sistema sociale e che invece Cuba avrebbe comunque saputo rintuzzare le lusinghe del capitalismo consumista. I cubani erano coinvolti e orgogliosi, i cecoslovacchi no. Cuba - nonostante le difficoltà - resiste tutt'oggi, probabimente perché i cubani hanno sviluppato una consapevolezza che li coinvolge in prima persona in difesa della propria sovranità, minacciata dall'imperialismo capitalista statunitense.

Per svolgere un ruolo partecipativo, il popolo deve acquisire quindi coscienza e competenza. Coscienza, per non essere cooptati dalle pseudo-culture che rafforzano il capitalismo patologico, come per esempio il consumo di prodotti e marchi monopolizzati dalle corporazioni transnazionali. Competenza, per poter esercitare il proprio potere di progettazione, decisione, accompagnamento e controllo delle politiche pubbliche messe in atto nella propria comunità di appartenenza e, per raggiungere tale obiettivo, avere gli strumenti che permettano ai cittadini di saperle scegliere, approvare e difendere.

Le grandi infrastrutture ed i servizi universali fondamentali come la fornitura dell'acqua, dell'elettricità, dei mezzi di comunicazione, dei trasporti, della sanità, dell'istruzione, della previdenza sociale, della sicurezza pubblica, della giustizia, della nettezza urbana e delle acque reflue, possono e debbono essere di proprietà pubblica statale e non privata. Ma non basta. Per non ingessare il tutto in una pachidermica burocrazia centralizzata, la loro gestione deve essere partecipata da un segmento significativo della società civile, dai propri utenti di tali servizi, dalle persone impegnate nelle organizzazioni dei movimenti popolari a livello comunitario ed in genere dai principali attori economici attuanti nella comunità ad ogni livello; altrimenti - quando gestite escusivamente dallo Stato centrale - riproducono fatalmente i soliti problemi legati al clientelismo, al nepotismo, alla corruzione, alle disfunzioni o all’abbandono.

Normalmente, i sociologi calcolano che circa il 20% della popolazione in media nel mondo si occupi di politica e di problemi sociali. Una società emancipata e avviata verso la costruzione del socialismo ha l'onere di ampliare costantemente questa percentuale, coinvolgendo segmenti sempre più ampi di cittadini e di persone che assumano ruoli di partecipazione nella gestione e definizione delle politiche pubbliche ed in generale che si occupino di politica.

È necessario che il potere sia condiviso, che passi dall'essere oligarchico (qualsiasi partito, gruppo sociale o classe lo egemonizzi) ad una ampiezza che si approssimi alla maggioranza della società. Solo così ha senso (e futuro) il nuovo socialismo e solo così esso potrà essere preservato da eventuali controrivoluzioni e restaurazioni e non meramente ed in maniera eticamente incoerente per mezzo delle armi autoritarie e violente della repressione.

La questione del mantenimento del potere con la forza autoritaria

Mi permetto di prendere a paragone come modello di ragionamento un vecchio discorso (2004) del sociologo Atìlio Boron (https://patriagrande.it/la-questione-del-potere-in-america-latina/), una riflessione sul potere in cui si ribadisce che “la conquista del Potere e della costruzione di un nuovo ordine sociale è funzionale alla costituzione di una società senza classi”. Boron determina che, nella costruzione di questa nuova società, si dovrà stabilire un ordine politico che si caratterizzerà per essere democratico e dittatoriale allo stesso tempo. Questo poiché si verificherà la necessità di neutralizzare i tentativi di restaurare il vecchio sistema e pertanto si renderanno necessarie misure coercitive da applicarsi ai nemici del nuovo ordine. Cioè, secondo Boron, dopo aver costruito nuove relazioni di forza, e dopo averle “cristallizzate” nelle istituzioni, queste nuove forze dovranno essere in grado di sottomettere gli oppositori, i quali ricorreranno a tutte le strategie possibili per riportare le cose allo stato di fatto anteriore.

Come già descrivevo all’inizio di questa riflessione, non credo invece che sia praticabile insistere - anche nell’attuale secolo XXI - con il paradigma dell'imposizione del nuovo sistema con la forza. Semplicemente, la soluzione alternativa può e deve essere quella di riequilibrare le relazioni di comando, attraverso specifiche politiche pubbliche che ridistribuiscano il potere a chi ne era stato privato. E ciò deve essere attuato per "cristallizzare" (come dice Boron) le forme (il metodo) - e non i contenuti (il merito). Da ridiscutere e rielaborare invece, questi ultimi, continuamente, a seconda delle esigenze di ogni periodo, situazione, necessità. L'esempio delle quote (rosa, delle donne, o dei neri) è lampante. Ci vuole del tempo affinché producano il riequilibrio sociale delle diseguaglianze, ma il processo è irreversibile. E si spera che un giorno le quote non servano più. Coscienti che le donne (e i neri) di oggi non arriveranno a vedere quel giorno e che forse solo le loro ed i loro pronipoti ne godranno.

Del resto la soluzione della classica contraddizione fondamentale marxiana Capitale/Lavoro, e quindi del conflitto strutturale tra le classi lavoratrici e quelle borghesi che detengono la ricchezza ed i mezzi di produzione, non risolve automaticamente altre fondamentali dispute di potere all'interno della società. Di fatto, fin dagli anni ’60 del secolo scorso, nelle società occidentali cominciavano ad emergere evidenti altre contraddizioni altrettanto fondamentali, che si sono venute sviluppando con forza su piani parimenti influenti di quello economico, anche se sovrastrutturali. Alcune di esse possono essere così riassunte: la contraddizione di genere Uomo/Donna; quella ambientale Sviluppo/Sostenibilità; le questioni rispetto agli orientamenti sessuali; quelle legate alle diversità culturali etniche. Nonché le sfide originate dalle ambiziose istanze radicali di pacifismo e non-violenza; un movimento alimentato in maniera rilevante dall’indignazione e dalla preoccupazione per i conflitti generati dall’arroganza imperialista, soprattutto atlantica.

Se per dirimere la questione Capitale/Lavoro si postula che sia necessario un passaggio autoritario, una dittatura del proletariato sulle (precedenti) classi dominanti borghesi, cosa allora dovremmo proporre per dirimere la contraddizione di genere? Una dittatura femminista sui maschi? E per i diritti dei non-eterosessuali, una dittatura LGBTQIA+ sugli eterosessuali? Per risolvere la questione dei popoli indigeni, una dittatura dei nativi sui cittadini e sui popoli che hanno sviluppato successivamente civiltà agrarie o urbane? Una dittatura nomade sui popoli sedentari? E che dire di una paradossale dittatura dei non-violenti per imporre la Pace a tutti coloro d’accordo con la guerra, magari di liberazione?

Beninteso, non pretendo negare a priori la necessità e la legittimità dell’utilizzo della lotta armata nel caso di guerre di liberazione contro potenze colonialiste o per affrontare gruppi armati contro-rivoluzionari, ma prendo atto che in questo secolo XXI, soprattutto in America Latina, le forme eversive golpiste messe in campo dal recidivo impero statunitense e dai suoi cani da guardia locali si basano esclusivamente sul nuovo schema del lawfare, cioè attraverso l’implementazione di azioni eversive senza l’utilizzo dei carri armati, svolte con la complicità di settori innescati nella magistratura locale e coadiuvati da altri organismi istituzionali interni, come le alte cariche delle forze armate, i servizi di intelligence deviati o lo stesso Parlamento; con il contributo strategico fondamentale ed invasivo dei monopoli mediatici mainstream.

Curiosamente, è proprio lo stesso Boron che conclude l’articolo su citato affermando ciò che disse già Marx: “nessuna rivoluzione trionfa se non costruisce un nuovo ordine statuale, una nuova istituzionalità pubblica. In assenza di questo, nessun cambiamento è possibile”. Quindi è evidente che riproporre lo schema di reprimere eventuali oppositori attraverso la violenza dello Stato non può essere affatto la soluzione.

Il coinvolgimento partecipativo delle maggioranze

Nello stesso articolo su menzionato, Boron critica l’attuazione del primo Governo Lula in quanto rinunciataria e non rivoluzionaria, dopo appena un anno dal suo insediamento, non avendo avuto modo e tempo per valutarne alcuni aspetti importanti implementati successivamente. Basandomi su esperienze personali direttamente vissute, vorrei esporre di seguito alcune politiche messe in atto dai Governi Lula a partire dal 2003 in Brasile, che possono suggerire nuovi percorsi di costruzione del socialismo che non siano costretti a riproporre il paradigma (del mantenimento e della difesa) del potere in forma violenta e dittatoriale.

È necessario fare una delucidante premessa. Quando Boron si interroga sui meccanismi mediante i quali le classi dominanti impediscono la sovversione dell’ordine sociale, palesemente ingiusto e sfruttatore, egli si chiede come sia possibile, nelle pseudo-democrazie borghesi capitalistiche, mantenere l’acquiescenza di grandi settori maggioritari della popolazione che vivono in condizione di povertà e oppressione di ogni tipo. Egli indica tre fattori: l'abitudine all'obbedienza, l'ideologia dominante e la repressione. A mio parere ne dimentica uno, che è fondamentale: l’educazione.

Come ricordava Paulo Freire: “Quando l'educazione non è libertaria, il sogno dell'oppresso è diventare oppressore”. Quindi è da quel fondamentale fattore che bisogna ripartire. Del resto, anche Jean-Jaques Rousseau affermava che “è difficile ridurre all’obbedienza chi non ama comandare”. La pedagogia rivoluzionaria di Paulo Freire è basata sull’educazione dialogica, cioè sul concetto che “nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli esseri umani si educano tra di loro, con la mediazione del mondo”. Egli ribadiva che è “necessario e prioritario che coloro ai quali è stato negato il diritto primordiale di pronunciare la parola, riconquistino tale prerogativa, proibendo che tale assalto disumanizzante continui”. È su queste basi che i Governi Lula - fin dalle prime attuazioni - hanno istituito varie forme di stimolo e promozione di una ampia partecipazione popolare nelle scelte politiche e nella gestione delle politiche pubbliche. Quelle politiche che hanno avviato processi di ridistribuzione effettiva del potere dalle oligarchie al popolo, o per lo meno a segmenti significativi delle masse popolari. Di seguito, alcuni esempi:

a) L'elaborazione dei piani quadriennali delle politiche di ogni ministero, per la gestione di questioni riguardanti direttamente la popolazione, viene effettuata attraverso un processo decentrato che parte dalla base della società ed arriva fino all’apice governativo: l'istruzione, l'educazione in genere, la sanità, le politiche urbane, le politiche agrarie, la ricerca scientifica, le questioni ambientali, lo sport, tra le altre. Fin dai Governi Lula dei primi anni del secolo sono stati realizzati 47 cicli di Conferenze Nazionali sui più importanti settori della vita pubblica brasiliana su citati (ed ulteriori saranno riproposti a breve in questo nuovo governo attuale). Si è partiti dalle Conferenze Municipali, convocate in ogni comune, con la presenza di qualsiasi cittadino libero di partecipare, per sé o in rappresentanza di un collettivo o organizzazione, che può proporre progetti, istanze, programmi, leggi. Nelle Conferenze Municipali si discutono tutte le proposte presentate e vengono votate. Le più votate vengono riportate nelle Conferenze Statali da delegati municipali eletti a maggioranza. In queste Conferenze Statali in ognuno dei 27 Stati brasiliani avviene lo stesso processo di selezione e accorpamento delle proposte e le più votate vengono incamminate nella Conferenza Nazionale da ulteriori delegati statali eletti. Ogni ministero competente infine è tenuto ad accogliere ed implementare le proposte discusse ed approvate nella Conferenza Nazionale. Quindi, per decidere le politiche pubbliche nel settore della salute - per esempio - il ministero ha a disposizione tutte le proposte e le richieste indicate a maggioranza popolare, fin dalla base delle unità municipali.

b) La gestione delle risorse naturali fondamentali. L'esempio delle risorse idriche: i primi Governi Lula hanno definito geograficamente i più importanti bacini idrografici del paese, legati al percorso dei maggiori fiumi brasiliani. Ognuno di questi bacini idrografici è gestito da un Comitato di Bacino, un vero e proprio “Parlamento dell'Acqua”, un importante spazio istituzionale di controllo sociale, perché permette la partecipazione della comunità nella pianificazione, esecuzione, accompagnamento, monitoraggio, valutazione e verifica delle azioni riferite alla gestione pubblica dei beni comuni essenziali. I membri di un Comitato di Bacino sono eletti attraverso un processo democratico di partecipazione ampia della società e vengono rinnovati ogni due anni. Tali comitati prevedono la composizione paritaria in tre segmenti che si suddividono in categorie:

1) Società Civile Organizzata (Enti di Insegnamento e Ricerca, Comunità Locali Tradizionali, Organizzazioni Civili nel settore delle Risorse Idriche, Associazioni, Federazioni, Sindacati, Fondazioni);

2) Utenti (Fornitori di acqua e di trattamento dei residui, Industrie e Attività Minerarie, Irrigazione e Agropecuaria, Idroelettriche, Idrovie di navigazione, Turismo e Tempo Libero, Pesca di allevamento e artigianale);

3) Potere Pubblico (Amministrazione Municipale, Amministrazione Statale, Amministrazione Federale).

I Popoli Indigeni costituiscono una categoria a parte e, nel caso presenti nel territorio, hanno diritto ad un seggio nel Comitato. Tutte queste categorie, quando presenti sul territorio, eleggono i rispettivi responsabili nel comitato; gli unici membri non eletti, ma indicati dai rispettivi enti, sono i rappresentanti dei poteri pubblici statali e federali.

c) Le politiche territoriali ed i rispettivi bilanci partecipativi e piani di sviluppo sostenibili. Con i Governi Lula è stata introdotta l’istituzione di Territori (regioni di grandezza intermedia tra gli Stati federali ed i singoli Municipi) - non disegnati e calati dall’alto del governo centrale - ma costituiti a partire da condivisioni di identità e appartenza, con criteri discussi e scelti a partire dai propri municipi che li compongono. A questi territori è stata concessa annualmente la competenza e la gestione di una fetta delle risorse di bilancio pubblico riferite alla propria regione. A patto che l'assemblea dei partecipanti del territorio elabori un piano di sviluppo sostenibile che contenga le linee guida e la lista delle priorità rispetto alle politiche pubbliche da finanziare. Alle assemblee territoriali sono ammessi tutti i cittadini e sono considerati membri ufficiali con diritto di voto tutti i rappresentanti di organizzazioni della società civile, dei movimenti popolari, delle cooperative, dei sindacati, delle associazioni di categoria, sportive e di qualsiasi altra natura di interesse sociale. Sono membri con diritto di voto nell'assemblea anche gli assessori comunali, i consiglieri comunali ed i sindaci dei comuni facenti parte del territorio, come anche i rappresentanti delle università e delle istituzioni scolastiche e di ricerca presenti nel territorio, i rappresentanti delle congregazioni religiose, delle chiese e delle parrocchie, nonché i rappresentanti delle popolazioni indigene, quilombola e di altre specifiche comunità tradizionali autonome, se presenti.

Da questi tre esempi concreti di politiche partecipative implementate in Brasile si percepisce come, oltre al potere esercitato dai soggetti eletti nelle istituzioni legislative ed esecutive e nelle amministrazioni pubbliche e oltre al potere esercitato dagli amministratori delegati delle grandi aziende che gestiscono ingenti risorse e grandi impianti industriali, si concede abbastanza potere decisionale - in genere in funzione dei due terzi dei presenti alle assemblee - anche ai cittadini, o meglio a quella parte di cittadini che si prendono la briga e l’impegno volontario di partecipare alle riunioni delle Conferenze, oppure dei Comitati di Bacino, oppure delle specifiche commissioni di settore e poi dell'Assemblea Generale del Territorio di appartenenza, per decidere a maggioranza quali politiche pubbliche mettere in atto nella propria regione.

Come affermava il filosofo Spinoza, “Il popolo trasferisce semplicemente al Re il potere che non domina totalmente”, quindi tutti i potenziali partecipanti e soprattutto la popolazione più umile e meno competente rispetto alle problematiche più complesse devono essere informati, stimolati, mobilitati e messi in condizione di partecipare alle scelte e alle decisioni riguardo alla cosa pubblica, prima di tutto promuovendo officine e seminari che possano delucidare sui problemi da discutere. Queste attività pedagogiche e di formazione devono essere non solo gratuite, ma devono prevedere il rimborso delle spese di trasporto, alimentazione e soggiorno in luoghi diversi dalla propria residenza; ed inoltre anche tutte le altre attività, che prevedono la partecipazione alle assemblee di elaborazione e decisione delle proposte, devono essere organizzate con la messa a disposizione di trasporto, alimentazione e soggiorno gratuito per tutti i partecipanti, garantendo loro il rimborso per le eventuali giornate di lavoro perse o la giustificazione per quelle di studio. Sono postulate quindi politiche pubbliche di formazione permanente di tutti i cittadini di qualsiasi età; proprio per rendere possibile quella condizione imprescindibile e “primordiale di pronunciare la parola”, precedentemente citata, sottolineata da Paulo Freire.

Nella mia esperienza diretta personale nello Stato di Bahia - per cinque anni (dal 2004 al 2008) nei quali ho coordinato, con la funzione di Articolatore Territoriale contrattato dal Governo Federale, i lavori di uno delle varie decine di Territori di Identità brasiliani - ho avuto modo di assistere ad un processo popolare emancipatorio straordinario, in cui i soggetti partecipanti, alcuni dei quali inizialmente addirittura analfabeti, sono arrivati a contribuire per definire direttamente scelte politiche specifiche riferite alla propria regione. Quando succede questo e si consolida un paradigma partecipativo di questa natura, credo sia difficile che poi si arrivino a verificare giravolte sociali del tipo di quelle a cui abbiamo assistito nei paesi dell'ex-Unione Sovietica.

È per questi motivi che trovo obsoleta la riproposizione (espressa anche da parte di Boron nell’articolo su citato) della eventualità che sia necessario che lo Stato nuovo neutralizzi i tentativi di restaurarazione del vecchio sistema reazionario attraverso misure coercitive da applicarsi ai nemici ed agli oppositori del nuovo ordine. Dobbiamo invece andare verso la costruzione partecipata di una società socialista in cui una maggioranza (sempre più ampia), consolidata e consapevole, conquisti una stabile egemonia e determini lo stato delle cose culturalmente, legamente e istituzionalmente, attraverso l’esercizio della partecipazione sociale e senza la necessità di riproporre la violenza repressiva utilizzata nei sistemi autoritari precedenti.

L’affermazione della solidarietà come modalità e valore fondamentale

In concreto, per sperimentare un autentico potere non-fascista (come lo definiva Foucault nel 1977 in una memorabile prefazione all’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari), alternativo all’attuale, sono convinto che dobbiamo impegnarci per porre le basi e creare le condizioni per far sì che: (A) i padroni dei mezzi di produzione li cedano ai lavoratori cooperati; (B) i proprietari di grandi terreni agricoli li cedano ai contadini che li coltivano; (C) i proprietari delle ricchezze finanziarie concentrate in poche mani le devolvano a beneficio collettivo delle comunità; (D) i benestanti cedano potere agli sfavoriti; (E) i dirigenti cedano potere ai subalterni; (F) i maschi cedano potere alle donne; (G) i bianchi cedano potere ai soggetti di altre etnie; (H) gli uomini di mezza età cedano potere agli anziani e, soprattutto, ai giovani; (I) gli eterosessuali cedano potere a coloro che esprimono un differente orientamento sessuale; (L) gli abili cedano potere (e spazi) ai diversamente abili; (M) i docenti cedano potere agli alunni ed in generale gli educatori lo cedano agli educandi.

Di fatto, non le buone intenzioni, ma solo gli esempi concreti e coerenti possono creare i presupposti per un processo di affermazione di valori e pratiche rivoluzionarie. Chiunque si trovi in una situazione di privilegio, per qualsiasi motivo ed in qualsiasi occasione, deve farsi carico di devolvere parte di tale vantaggio a chi vive una condizione sfavorevole. Deve farlo in base a quel principio umano essenziale secondo il quale per ogni persona sia lecito guardarne un’altra dall’alto in basso solamente quando sta aiutandola a sollevarsi. Questo è l’atteggiamento che esprime una solidarietà autentica, fondamento per il consolidamento di una società socialista duratura.

Come suggeriva lo scrittore e sociologo gallese Raymond Williams, il nostro compito è quello di creare ed alimentare spazi di resistenza e, quindi, contro-egemonici, che possono iniziare a costruirsi dentro specifiche comunità e organizzazioni anticapitaliste: nei corsi di formazione permanente; nella produzione artistica e culturale; nel lavoro collettivo. Infine, nell’affermazione dell’etica della solidarietà. Un codice morale non formulato ma potente, basato su collaborazione fraterna, mutua assistenza, cooperazione e volontà comune di lottare per la giustizia.

A questo proposito, Williams sottolinea l’importanza delle diverse concezioni delle relazioni sociali all’interno delle classi: la cultura della classe operaia si manifesta tendenzialmente in termini di cooperativismo comunitario, mentre quella della classe borghese è caratterizzata dalla competitività e dall’individualismo. In altre parole, la borghesia è guidata da una forma di socialità individualistica, mentre la classe dei lavoratori tende a concepire le relazioni sociali sulla base dell’etica della solidarietà. Istituzioni democratiche, sindacati e forme di socialità popolare basate su tale etica sono il contributo di questa classe alla formazione di una cultura comune. Una cultura fatta di valori, pratiche e significati che possono essere condivisi da un’intera società basata sulla solidarietà oggettiva.

Un contributo in tal senso si trova anche nel “Saggio sul socialismo” ripubblicato aggiornato da Tarso Genro nel 2021 (https://www.occhisulmondo.info/2021/01/21/saggio-sul-socialismo/), nel quale si riconosce che la vecchia identità operaia nella modernità industriale si è diluita in una accentuata frammentazione della struttura di classe tradizionale. E quindi, “per ricostruire il nuovo soggetto, prima ancora dell’ammodernato progetto socialista stesso, è necessaria una nuova vita pubblica organica, affinché la maggioranza dei lavoratori inizi a condividere nuove identità in un nuovo modo di vivere, al di fuori della logica del mercato capitalista. E questa condivisione è necessariamente transterritoriale, di genere, culturale e multilingue. Si tratta della creazione di un movimento politico che contenga i germi di un nuovo modo di vivere, alla ricerca delle nuove forme di articolazione produttiva, che può essere sia una politica di Governo che di Opposizione di sinistra, a partire da un programma minimo in cui le attività produttive - sociali e culturali - devono contribuire ad implementare una nuova esistenza in comune, nuove relazioni e nuovi modi di produrre, sia cibo sano che beni di base dell’industria necessari per una vita dignitosa”.

Tali suggerimenti e proposte si vengono concretizzando oggi in varie parti del mondo attraverso lo sviluppo di relazioni sociali e di lavoro in forma associativa e cooperativistica, alimentando lo specifico settore della “Economia Solidale”. Questo specifico ambito di attuazione stimola atresì la necessità di avanzare nella sperimentazione di pratiche che contribuiscano a sviluppare forme sempre più efficienti di auto-organizzazione ed autogestione (a questo proposito, vedi: https://www.lefrivista.it/2021/10/31/considerazioni-sullautorganizzazione/).

Da ciò risulta sempre più evidente che, se lavoratori, studenti, femministe, ambientalisti e altri diversi gruppi antagonisti presenti nella società, che subiscono l’oppressione economica e culturale, non riusciranno ad individuare alcuni punti comuni attorno ai quali lottare - ed a farlo con modalità alternative - non ci saranno progressi significativi. Si tratta certo di sconfiggere i meccanismi specifici di oppressione che operano all’interno di ciascun settore; ma anche di trovare, in questa diversità di rivendicazioni, istanze comuni, intrise di solidarietà oggettiva, attorno alle quali tutti insieme riescano ad integrare ed articolare le necessarie lotte, affinché si ottenga il raggiungimento dell’egemonia emancipatrice.

Tutti capiamo ovviamente che non ha senso pensare di raggiungere la felicità da soli - poiché se non la si può condividere, non si è autenticamente felici. E per il potere è la stessa cosa. Se non lo si condivide, se non si è pronti a cederne parte ai soggetti e alle identità emergenti lungo il percorso delle lotte intraprese insieme - ai nostri compagni e alle nostre compagne - non si tratta di legittimo potere demiurgico, ma di sterile ed autoreferenziale arroganza prevaricatrice, destinata a riprodurre dolorosi vecchi schemi oligarchici.

Spero che questo strenuo lavoro politico di ricerca continui, facendo tesoro del nuovo paradigma participativo e orizzontale articolato in rete (sperimentato anche a partire dai Forum Sociali Mondiali e portato avanti da esperienze di autogestione locali come quelle degli zapatisti del Chiapas o dei curdi a Kobane) e che ciò possa contribuire a superare vecchie concezioni autoritarie, militaresche, paternaliste e piramidali e a far proliferare la forza derivante dalla contribuzione collettiva e integrata di tutte le differenze partecipanti in campo. Una rete internazionale che contempli e coinvolga l’attuale maggioranza di sfavoriti, subalterni, silenziati, esautorati, dannati della Terra, impegnata nella lotta per il superamento del neoliberismo disumano imperante - di questo capitalismo bellicista, inquinante e necrofilo - verso il socialismo del secolo XXI.

Come evoca una delle più belle canzoni degli anni ’70 dello scorso secolo: “Noi che facciamo ricca la Terra, noi che mandiamo al raccolto cotone, riso e grano, noi che facciamo bella la Luna, con la nostra vita coperta di stracci; riprendiamola in mano, riprendiamola intera, riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l'abbondanza”.

16/6/2023

 

Latinoamerica-online.it

a cura di Nicoletta Manuzzato