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Perù, due mesi di proteste e di repressione

Continuano le proteste in Perù e continua la sanguinosa repressione del governo di Dina Boluarte. Secondo cifre ufficiali sono già 48 i morti (ma potrebbero essere molti di più) e oltre 1.200 i feriti tra i manifestanti, da due mesi in lotta contro quello che a tutti gli effetti è stato un colpo di Stato. Dal 7 dicembre il paese è retto da un esecutivo sostenuto dalla destra e dall'estrema destra, che non sembra voler cedere minimamente alle richieste dei dimostranti: chiusura del Congresso, elezioni entro quest'anno, rinuncia di Boluarte, Assemblea Costituente e liberazione di Pedro Castillo. Quest'ultimo punto è sentito soprattutto dalle popolazioni andine, non tanto per gli scarsi risultati politici della presidenza del maestro rurale, quanto per l'identificazione che il Perù indigeno prova nei confronti di un politico non appartenente all'élite tradizionale.

Proprio dal sud andino, la zona più povera e discriminata, era partita la protesta, che si è allargata alla capitale. Qui in gennaio sono confluiti in migliaia per quella che è stata chiamata la Toma de Lima. La risposta è stata la violenza poliziesca scatenata contro cortei pacifici e disarmati. Gli agenti sono entrati anche nella sede dell'Universidad de San Marcos, la più antica del continente, dove gli studenti avevano ospitato i dimostranti venuti da fuori: duecento gli arrestati, compresa una bambina di otto anni. L'assalto all'ateneo è stato condannato dalla Comisión Interamericana de Derechos Humanos e l'arbitrarietà dell'operazione è dimostrata dal fatto che i detenuti sono stati poi liberati per ordine della Procura.

Le proteste proseguono anche nel resto del paese, con scioperi e massicci blocchi stradali. Polizia ed esercito agiscono con una violenza spropositata soprattutto nelle regioni a prevalenza indigena: solo a Juliaca, nel dipartimento di Puno (alla frontiera con la Bolivia), il 9 gennaio si sono contate 18 vittime. Il governo criminalizza quanti manifestano definendoli "terroristi" e giustificando l'operato degli agenti. Un bono especial para la heroica policía è stato proposto dal capo di gabinetto, il "falco" Alberto Otárola. E in sette dipartimenti è stato ora proclamato lo stato d'emergenza, con la soppressione delle garanzie costituzionali. Intanto lo screditato Congresso, la cui approvazione si aggira sul 7%, volta le spalle alle richieste popolari bocciando qualsiasi proposta di elezioni entro quest'anno. In dicembre era stato approvato l'anticipo delle consultazioni dal 2026 all'aprile 2024, ma la nuova data avrebbe dovuto essere ratificata da una seconda votazione in Parlamento e questo non è avvenuto.

Tali scelte costano comunque care, sia sul piano interno che su quello internazionale. In due mesi si sono registrati ben otto cambiamenti nella compagine ministeriale: quattro dimissioni sono state motivate proprio da divergenze con la politica repressiva dell'esecutivo. Quanto ai rapporti con i paesi latinoamericani, il governo Boluarte è riuscito a inimicarsene molti. Ha ritirato i propri ambasciatori dal Messico (che aveva concesso asilo politico alla famiglia di Pedro Castillo) e dall'Honduras (Xiomara Castro aveva condannato il colpo di Stato); ha dichiarato l'ex presidente Evo Morales "persona non grata" e accusato di ingerenza l'attuale capo di Stato boliviano Luis Arce; infine ha espresso "malessere" per i commenti sulla crisi in atto da parte del cileno Gabriel Boric. (8/2/2023)

 

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a cura di Nicoletta Manuzzato