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Sud America, negazionisti all'attacco  (11/4/2017)

Gli Usa rafforzano la presenza in Sud America  (8/4/2017)

L'America Latina nell'era Trump  (5/2/2017)

Otto ergastoli a Roma per il Plan Cóndor  (19/1/2017)

 

Argentina

Repressione e attacchi giudiziari  (20/12/2017)

Il primo desaparecido dell'era Macri  (25/8/2017)

Uccisa testimone contro i repressori  (20/5/2017)

La protesta scende in piazza  (7/4/2017)

 

Brasile

Si prepara il ritorno dei militari?  (7/11/2017)

Il golpe prosegue con la condanna di Lula  (21/7/2017)

Lula e il giudice Moro a confronto  (13/5/2017)

Sciopero generale contro Temer  (2/5/2017)

 

Cile

Sebastián Piñera rieletto presidente  (18/12/2017)

 

Colombia

Tra speranze di pace e nuovi massacri  (13/10/2017)

Le Farc dicono addio alle armi  (28/6/2017)

Denunciate le inadempienze del governo  (6/6/2017)

Assassinata leader comunitaria  (6/3/2017)

 

Cuba

Il mistero degli attacchi acustici  (8/11/2017)

 

Ecuador

La svolta di Lenín Moreno  (15/12/2017)

Lenín Moreno è il nuovo presidente  (4/4/2017)

 

Guatemala

Di nuovo in piazza contro la corruzione  (21/9/2017)

 

Honduras

Brogli elettorali e resistenza popolare  (23/12/2017)

 

Messico

Solidarietà umana e corruzione statale  (23/9/2017)

Giornalisti e oppositori spiati dal governo  (6/9/2017)

Al Messico il ruolo di "portinaio" degli Usa?  (17/6/2017)

Nasce il Concejo Indígena de Gobierno  (29/5/2017)

Il paese più violento dopo la Siria  (16/5/2017)

In piazza contro il gasolinazo  (23/1/2017)

 

Paraguay

Proteste contro la riforma costituzionale  (18/4/2017)

 

Perù

Migliaia in piazza contro l'indulto a Fujimori  (29/12/2017)

 

Venezuela

Dalla Costituente al voto del 15 ottobre  (26/10/2017)

Continua l'offensiva golpista  (23/6/2017)

Maduro convoca la Costituente  (12/5/2017)

Crisi istituzionale e ingerenza Usa  (28/4/2017)

 


Perù, migliaia in piazza contro l'indulto a Fujimori

"Né oblio né perdono". Migliaia di persone hanno espresso la loro indignazione per la decisione del presidente Pedro Pablo Kuczynski di concedere l'indulto umanitario al dittatore Alberto Fujimori, condannato a 25 anni per violazione dei diritti umani e corruzione. La stessa notte di Natale, non appena si è sparsa la notizia, la protesta è scesa in piazza. Manifestazioni di ripudio si sono ripetute nei giorni successivi, nella capitale e nelle principali città del paese.

Il capo dello Stato ha cercato di giustificare il provvedimento con "la ricerca della riconciliazione nazionale", ma tutti sanno che in realtà l'indulto ha rappresentato una moneta di scambio. Kuczynski paga così il favore resogli da un settore del fujimorismo, che gli ha permesso di rimanere al potere. Tre giorni prima infatti il Congresso era stato chiamato a votare su una richiesta di destituzione, "per inadeguatezza morale", in seguito allo scandalo Odebrecht, la compagnia brasiliana sotto inchiesta per aver corrotto funzionari e governanti di diversi paesi dell'America Latina. Kuczynski è accusato di aver ricevuto cospicue tangenti fin dal 2004, quando era ministro dell'Economia, attraverso la sua impresa Westfield Capital, e un'altra impresa, First Capital, proprietà del suo socio e amico Gerardo Sepúlveda.

Kuczynski non è l'unico esponente politico di primo piano a trovarsi nei guai per le tangenti di Odebrecht. Il suo predecessore Ollanta Humala è attualmente in carcere in attesa di giudizio, mentre Alejandro Toledo, che governò dal 2001 al 2006, si è rifugiato negli Stati Uniti, ma su di lui pende una richiesta di estradizione. Tra gli indagati anche il successore di Toledo, l'aprista Alan García, e Keiko Fujimori, figlia dell'ex dittatore e candidata presidenziale nel 2016, che avrebbe beneficiato di finanziamenti per la sua campagna elettorale.

Proprio con l'obiettivo di bloccare questa indagine Keiko Fujimori, il cui partito Fuerza Popular ha il controllo del Congresso, era tra i principali promotori dell'impeachment. Sulla questione la sinistra era divisa: il Frente Amplio era a favore della rimozione, mentre il raggruppamento Nuevo Perú di Verónika Mendoza, pur condannando la corruzione presidenziale, non aveva voluto prestarsi al gioco di Fuerza Popular e aveva deciso di abbandonare l'aula al momento della votazione. Sulla carta la sorte del presidente sembrava comunque segnata. Ma i piani di Keiko hanno incontrato un ostacolo imprevisto: l'opposizione del fratello Kenji, anch'egli parlamentare e da tempo suo rivale all'interno del fujimorismo. Grazie a un accordo segreto tra Kenji e il capo dello Stato, alla mozione di condanna sono venuti a mancare dieci voti decisivi. In cambio della salvezza politica, Kuczynski ha concesso la liberazione di Alberto Fujimori.

Se è riuscito a restare in sella, il presidente esce comunque indebolito dalla vicenda: tre parlamentari hanno abbandonato il suo gruppo e due ministri si sono dimessi. Nel paese la sua popolarità è ai minimi storici. Quanti nel 2016 avevano votato per lui "turandosi il naso", solo per evitare un ritorno al potere del fujimorismo, si sentono traditi e i familiari delle vittime hanno già presentato un ricorso contro l'indulto alla Corte Interamericana per i Diritti Umani.

29/12/2017


Honduras, brogli elettorali e resistenza popolare

Gli Stati Uniti hanno riconosciuto la vittoria di Juan Orlando Hernández (JOH), esponente del golpista Partido Nacional, alle presidenziali del 26 novembre. E questo nonostante l'evidenza di irregolarità e brogli ai danni del candidato dell'Alianza de Oposición contra la Dictadura, Salvador Nasralla. Immediata la risposta del coordinatore dell'Alianza, Manuel Zelaya: "Non condanniamo il popolo statunitense: condanniamo le azioni fraudolente di Donald Trump e del Dipartimento di Stato". Zelaya ha assicurato che la protesta nelle strade continuerà: "Non dobbiamo arrenderci perché l'attuale presidente è un usurpatore e un impostore".

La mobilitazione popolare del resto non si è mai interrotta: decine di migliaia di persone sono scese in piazza fin dal primo giorno per protestare contro questo golpe nel golpe. La risposta del regime è stata una feroce repressione, che ha già provocato 22 morti e centinaia di feriti. Ma neppure l'imposizione del coprifuoco e la sospensione delle garanzie costituzionali sono riuscite a fermare la resistenza.

Tutto il processo elettorale era stato condotto all'insegna dell'illegalità. A partire dalla ricandidatura di Hernández, proibita dalla Costituzione, ma avallata da una complice Corte Suprema de Justicia. Proprio l'accusa di puntare alla rielezione era servita come pretesto, nel 2009, per rovesciare il legittimo capo dello Stato, Zelaya: la sua "colpa" in realtà era stata quella di aver tentato di sottrarre il paese dalle mani dell'oligarchia, al potere da sempre con il sostegno degli Stati Uniti, e di essersi avvicinato al Venezuela di Chávez.

Nel primo bollettino del Tribunal Supremo Electoral, emesso il giorno successivo al voto con quasi il 60% delle schede scrutinate, Nasralla risultava in vantaggio di cinque punti. A quel punto si era registrata un'interruzione nella comunicazione dei risultati ufficiali; quando il flusso dei dati era ripreso, la tendenza si era invertita e JOH era passato in testa. Il 10 dicembre, dopo aver effettuato un riconteggio parziale delle schede nel tentativo di fermare le proteste, il tribunale elettorale - spalleggiato dall'incaricata d'affari statunitense Heide Fulton - aveva annunciato che Hernández aveva superato di stretta misura l'avversario. E una settimana dopo era stata proclamata ufficialmente la rielezione di JOH con il 42,95% dei voti, contro il 41,42% di Nasralla.

Anche durante la campagna - avevano segnalato gli osservatori della Missione Europea - il Partido Nacional aveva goduto di un ampio vantaggio ai danni delle altre forze politiche e i media locali avevano discriminato apertamente l'opposizione. Il partito di governo, che esercita uno stretto controllo sul Tribunal Supremo Electoral e sul Registro Nacional de las Personas (dove figurano ancora nomi di defunti o di immigrati all'estero), si era dunque assicurato tutti gli strumenti per manipolare il responso delle urne. E, al fine di screditare l'opposizione, alla vigilia del voto erano state ampiamente diffuse false accuse contro il Venezuela, che avrebbe introdotto in Honduras "145 esperti in destabilizzazione e azioni terroristiche" per sabotare le consultazioni. Le accuse provenivano dall'Arcadia Foundation, organizzazione statunitense già segnalata per il suo sostegno al colpo di Stato di otto anni fa.

Dopo aver denunciato irregolarità e scarsa trasparenza, però, gli osservatori europei erano praticamente usciti di scena: "L'Unione Europea si è ritirata dal processo accettando l'egemonia degli Stati Uniti in questa zona del mondo", afferma un documento del Cespad, il Centro de Estudios para la Democracia. Quanto all'Organización de los Estados Americanos, anch'essa presente in Honduras come garante del rispetto della volontà popolare, "ha subordinato la sua missione agli interessi della potenza egemonica regionale", sostiene ancora il Cespad. Pur costretta dalle prove schiaccianti di brogli a chiedere la realizzazione di nuove elezioni, l'Oea si è poi piegata al diktat statunitense.

La decisione dell'amministrazione Trump rappresenta un "premio" all'Honduras di Hernández che il 21 dicembre, nel corso dell'Assemblea Generale dell'Onu, ha votato (insieme al Guatemala) contro la risoluzione di condanna del riconoscimento statunitense di Gerusalemme come capitale di Israele. E ora il moderato Nasralla annuncia il ritiro dalla politica per tornare al suo lavoro di giornalista. Una scelta fatta dopo un viaggio a Washington durante il quale, a quanto pare, è stato "convinto", come già gli avevano raccomandato alcuni portavoce dell'Oea, a svincolarsi dal "chavista" Zelaya.

23/12/2017


Argentina, repressione e attacchi giudiziari

Con metodi repressivi che non si vedevano dalle tragiche giornale del 2001 il presidente Macri sta rispondendo alle proteste contro la sua politica neoliberista. Il 13 dicembre i manifestanti che cercavano di raggiungere il Congresso, dove si stava dibattendo la riforma della previdenza, sono stati fermati da violente cariche, cani, gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Nei giorni successivi il copione si è ripetuto con decine di feriti e di arrestati, in una città militarizzata che ricordava gli anni della dittatura; anche giornalisti e parlamentari sono stati malmenati. Il provvedimento è stato approvato solo all'alba del 19 dicembre. Ore di intensi cacerolazos hanno dato voce alla rivolta della maggioranza della popolazione contro questa legge che taglia pesantemente pensioni e sussidi per invalidi e persone disagiate, in un paese dove già si registrano oltre tredici milioni e mezzo di poveri. E dove latifondisti, compagnie minerarie e grandi imprenditori si sono invece visti ridurre le tasse.

Uscito rafforzato dalla vittoria dell'alleanza Cambiemos alle elezioni legislative del 22 ottobre, nella capitale e in dodici province tra cui quella di Buenos Aires, il governo è deciso a portare a fondo il suo attacco alle conquiste sociali degli ultimi anni. Il modello è quello collaudato nei territori mapuche, dove il primo agosto Santiago Maldonado era scomparso nel quadro di una brutale repressione della Gendarmería. Il corpo di Santiago è stato rinvenuto il 17 ottobre vicino alla sponda del Río Chubut. L'autopsia, che ha confermato la morte per annegamento, non ha sciolto tutti i dubbi, anche perché il luogo del ritrovamento era stato più volte controllato nelle settimane precedenti. E il 25 novembre, nella provincia di Río Negro, è stato assassinato dalle forze di sicurezza il giovane mapuche Rafael Nahuel. Se Benetton è il principale latifondista del Chubut, con appezzamenti che si estendono per quasi un milione di ettari, nella provincia di Río Negro domina il britannico Joe Lewis, molto amico di Mauricio Macri.

Nel frattempo la vicenda della scomparsa il 15 novembre - e del probabile affondamento - del sottomarino ARA San Juan, con 44 persone a bordo, ha rivelato la presenza di navi statunitensi in acque argentine senza il permesso del Congresso. Un elemento ancora più inquietante se si considera che Buenos Aires sta negoziando con Washington l'installazione di basi militari nella Tierra del Fuego. In settembre il governo era riuscito a ottenere dal Senato l'approvazione all'ingresso nel paese di truppe straniere per esercitazioni congiunte. L'iniziativa era stata poi bloccata alla Camera da un progetto di legge, presentato dal blocco kirchnerista, volto a proibire manovre militari straniere su territorio nazionale.

Accanto alla repressione delle proteste continua l'offensiva giudiziaria contro gli esponenti del precedente governo e in particolare contro Cristina Fernández, leader della nuova formazione Unidad Ciudadana. Il giudice federale Claudio Bonadío ha chiesto l'arresto dell'ex presidente per alto tradimento, in merito alla presunta copertura dei funzionari iraniani indicati da Cia e Mossad come i responsabili dell'attentato del 1994 contro l'Asociación Mutual Israelita Argentina. L'accusa si riferisce all'accordo tra Buenos Aires e Teheran (accordo approvato dal Congresso e mai entrato in vigore), che avrebbe permesso agli inquirenti argentini di procedere all'interrogatorio dei sospettati in Iran. Cristina gode dell'immunità, essendo stata recentemente eletta senatrice: la richiesta di arresto dovrà dunque passare attraverso un voto parlamentare.

A fine ottobre veniva archiviata la denuncia contro Macri per arricchimento illecito, patteggiamenti incompatibili con la funzione pubblica e falsificazione di dichiarazione giurata e ai primi di novembre l'ex vicepresidente Amado Boudou era arrestato per "associazione illegale". Quasi contemporaneamente la procuratrice generale Alejandra Gils Carbó, osteggiata fin dall'inizio dal capo dello Stato per la sua indipendenza, era costretta a dimettersi e veniva sospeso il giudice Luis Arias, che aveva avuto l'ardire nel 2016 di frenare l'aumento spropositato delle bollette elettriche nella provincia di Buenos Aires.

20/12/2017


Cile, Sebastián Piñera rieletto presidente

Sebastián Piñera, della coalizione di destra Chile Vamos, torna a guidare il Cile: al ballottaggio del 17 dicembre ha infatti superato, con il 54,57% dei voti, il suo avversario Alejandro Guillier (La Fuerza de la Mayoría). Imprenditore miliardario più volte denunciato per frode, pagamento di tangenti ed evasione di imposte, il candidato del potere finanziario aveva condotto attraverso i media una campagna allarmistica, preannunciando crisi economiche e crolli nel valore delle azioni in caso di vittoria di Guillier.

In realtà il programma di quest'ultimo, all'insegna della continuità con la gestione Bachelet, non aveva niente di rivoluzionario. Il secondo mandato di Michelle Bachelet ha visto alcuni passi avanti nella riforma dell'istruzione e soprattutto ha registrato la depenalizzazione dell'aborto in tre casi (stupro, rischio per la vita della madre e impossibilità del feto a sopravvivere). Ma resta ancora molto dell'eredità della dittatura, nel sistema previdenziale come nella sanità, e la disuguaglianza tra classi sociali rimane tra le più alte del continente.

Al primo turno, il 19 novembre, queste elezioni hanno dimostrato la poca credibilità dei sondaggi, che avevano pronosticato per Piñera un 45% di suffragi: invece il miliardario non è arrivato neppure al 37%. Al secondo posto Guillier con meno del 23%. La grande sorpresa è stata la giornalista Beatriz Sánchez, del Frente Amplio (sinistra), che ha superato il 20% mentre le inchieste le avevano attribuito solo l'8%. Al quarto posto José Antonio Kast (estrema destra pinochetista) con quasi l'8%, seguito da Carolina Goic (Democracia Cristiana) e Marco Enríquez-Ominami (Partido Progresista), entrambi sotto il 6%. Si è rotto così il classico schema politico cileno, che vedeva due grosse coalizioni disputarsi il governo: al centrosinistra la Concertación, a destra l'Alianza. Anche il Congresso è uscito trasformato dal voto e il nuovo presidente, che assumirà le sue funzioni nel marzo 2018, non potrà contare su una maggioranza parlamentare.

Per il ballottaggio Kast aveva subito garantito il suo sostegno a Piñera, Goic ed Enríquez-Ominami avevano assicurato il loro appoggio a Guillier. Fondamentale diventava a questo punto la posizione del Frente Amplio, raggruppamento di undici associazioni, alcune delle quali drasticamente contrarie a ogni accordo con gli esponenti della politica tradizionale. E anche se agli inizi di dicembre Beatriz Sánchez dichiarava che avrebbe votato "contro Sebastián Piñera", i risultati dimostrano che molti degli elettori del Frente Amplio hanno optato per l'astensione.

18/12/2017


Ecuador, la svolta di Lenín Moreno

Il vicepresidente Jorge Glas è stato condannato a sei anni di prigione per corruzione: avrebbe ricevuto tangenti per favorire la concessione di appalti alla compagnia brasiliana Odebrecht. La sentenza, che colpisce un fedele sostenitore di Rafael Correa, si inserisce nella battaglia politica in corso tra questi e l'attuale capo dello Stato, Lenín Moreno. Correa ha criticato la strumentalizzazione del caso, sostenendo la mancanza assoluta di prove e accusando Moreno di volersi impadronire della vicepresidenza. Glas era stato arrestato in ottobre, ma già due mesi prima il presidente lo aveva privato di tutte le funzioni.

Già all'indomani del suo insediamento Moreno ha cominciato a prendere le distanze dalle posizioni del suo predecessore. Con il pretesto di avviare un "dialogo nazionale" ha stretto alleanza con gli oppositori di Correa, da personaggi eccentrici come Abdalá Bucaram (presidente dall'agosto 1996 al febbraio 1997 e poi destituito dal Congresso per "incapacità mentale"), a esponenti della destra, all'organizzazione indigena Conaie. Presentandosi come paladino della lotta contro l'inefficienza e le ruberie del settore pubblico, mira a ridurre la presenza dello Stato per lasciare spazio ai privati. Su questa linea ha trovato appoggi nei settori imprenditoriali, nelle banche e nei principali media, Affermando di aver ricevuto un paese gravato da "pesante indebitamento", ha annunciato un programma di taglio neoliberista: contenimento della spesa pubblica e stimolo agli investimenti.

Contemporaneamente ha cercato di erodere la leadership di Correa squalificando ogni risultato del governo precedente. E ora punta a estrometterlo dalla scena politica con un referendum fissato per il 4 febbraio, che ne impedirebbe la ricandidatura alle prossime elezioni e cancellerebbe riforme fondamentali della Revolución Ciudadana, come la Ley de Plusvalía. L'ex presidente, che ora risiede in Belgio con la famiglia, è tornato in patria per un breve periodo in novembre per disputare a Moreno il controllo di Alianza País.

15/12/2017


Cuba, il mistero degli attacchi acustici

191 voti a favore della condanna dell'embargo e due contrari (Stati Uniti e Israele): alle Nazioni Unite le posizioni sul blocco statunitense a Cuba sono tornate quelle del 2015, dopo la parentesi dello scorso anno in cui i governi di Washington e Tel Aviv avevano optato per l'astensione. Una dimostrazione dei passi indietro nella normalizzazione delle relazioni bilaterali dopo l'elezione di Trump. E dal 9 novembre entrano in vigore le nuove misure annunciate in giugno dalla Casa Bianca, che prevedono limitazioni ai viaggi sull'isola di cittadini statunitensi e restrizioni alle transazioni commerciali con una serie di imprese cubane quali il Grupo de Administración Empresarial, il consorzio delle forze armate.

I rapporti tra i due paesi si sono ulteriormente deteriorati negli ultimi mesi in seguito alla denuncia, da parte dell'amministrazione statunitense, di presunti attacchi acustici che dalla fine del 2016 avrebbero colpito una ventina di funzionari in forze presso l'ambasciata Usa all'Avana. I diplomatici affermano di aver sentito vibrazioni o di aver percepito strani suoni e di aver poi sofferto di nausea, emicrania, calo dell'udito, difficoltà a concentrarsi e persino lesioni cerebrali. Nessuna prova di tali fenomeni è stata presentata e del resto i cittadini cubani, che lavorano nella stessa ambasciata o nelle residenze dei funzionari, non hanno manifestato alcun disturbo. Ma il pretesto è bastato per giustificare in maggio l'espulsione di due membri della rappresentanza cubana a Washington: una forma di rappresaglia perché il governo di Raúl Castro non avrebbe adottato adeguate misure di protezione dei diplomatici statunitensi. Intanto negli ambienti degli anticastristi di Miami si ipotizzava l'esistenza di un'arma segreta cubana, nonostante lo scetticismo di tutti gli specialisti consultati dal quotidiano The Washington Post o da altri media.

Sempre con la scusa degli attacchi acustici, a fine settembre la Casa Bianca ha deciso di ridurre di oltre la metà il suo personale presso l'ambasciata all'Avana e pochi giorni dopo ha annunciato l'espulsione di altri quindici diplomatici cubani. Le autorità dell'isola, dal canto loro, hanno accusato Washington di ostacolare le indagini sulla vicenda, impedendo agli esperti cubani di avere accesso alle perizie effettuate e di intervistare le persone che hanno lamentato disturbi. Nel frattempo è emerso un altro elemento: l'agenzia The Associated Press ha riportato che tra le prime vittime delle "aggressioni sonore" figurano i componenti della rete di spionaggio statunitense presenti nell'ambasciata. E il mistero permane.

8/11/2017


Brasile, si prepara il ritorno dei militari?

Sono in corso dal 6 novembre le esercitazioni militari congiunte AmazonLog17, con la partecipazione di effettivi brasiliani, colombiani, peruviani e del Southern Command statunitense. Per la prima volta dunque soldati Usa sono sbarcati in Amazzonia e precisamente a Tabatinga (Stato di Amazonas), al confine con la città colombiana di Leticia che ospita una moderna base aerea. Da qui muoveranno verso Pacaraima, nello Stato di Roraima che divide la sua frontiera con il Venezuela. Non a caso proprio in questo Stato si sono recati spesso, negli ultimi mesi, gli alti comandi brasiliani e i funzionari del Ministero della Difesa.

AmazonLog17, che consiste ufficialmente nell'addestramento all'assistenza umanitaria in caso di catastrofe, terminerà il 13 novembre. Non rimarrà dunque una presenza militare fissa, hanno assicurato i vertici delle forze armate brasiliane. "È un attentato alla sovranità nazionale, la costruzione di una base temporanea può evolvere più tardi in una base permanente", ha ribattuto il senatore del Partido dos Trabalhadores Lindbergh Farias.

È chiaro che nella mira c'è la Repubblica Bolivariana. Del resto il ministro della Difesa di Brasilia, Raul Jungmann, ha più volte dichiarato che "non esclude nessuna ipotesi" per la soluzione della crisi venezuelana. Jungmann non ha trovato invece nulla da ridire sulle parole eversive del generale Antônio Hamilton Mourão che in settembre, alla riunione di una loggia massonica, aveva giustificato l'ipotesi di un colpo di Stato per lottare contro la corruzione della politica. In una nota sull'episodio, Jungmann rilevava "un clima di assoluta tranquillità e di osservanza dei principi di disciplina e gerarchia che costituiscono le forze armate".

Nel frattempo il comandante dell'esercito Eduardo Villas Bôas, che aveva definito il populismo "la disgrazia dell'America del Sud", veniva ricevuto con tutti gli onori in un programma televisivo della rete Globo: si prepara in tal modo l'opinione pubblica a un eventuale ritorno dei militari. Gli stessi che hanno sempre definito Dilma Rousseff "una sovversiva" e che celebrano ogni 31 marzo l'anniversario del golpe del 1964.

È questa la carta che l'estrema destra ha in serbo per il dopo Temer? Intanto l'illegittimo presidente, che conta su un misero 3% di popolarità, già due volte è riuscito a rimanere ancorato alla poltrona, sottraendosi alla giustizia. In agosto era stato chiesto il suo rinvio a giudizio per corruzione; in ottobre era stato accusato di essere a capo di un'organizzazione illegale che avrebbe sottratto 175 milioni di dollari: in entrambi i casi il voto dei parlamentari, ben ricompensati con incarichi, elargizioni, esenzioni fiscali, gli ha assicurato l'impunità. Rimarrà in sella almeno fino a quando non avrà garantito ai poteri reali la privatizzazione di tutto il patrimonio nazionale (a partire dal petrolio) e la cancellazione di ogni provvedimento a favore di lavoratori e pensionati.

7/11/2017


Venezuela, dalla Costituente al voto del 15 ottobre

Con il voto del 15 ottobre, in cui ha eletto 18 governatori su 23, il chavismo si conferma la forza dominante nel paese, affermandosi in Stati importanti e densamente popolati come Miranda, Lara, Carabobo e Aragua. Perde però nelle zone al confine con la Colombia, un'area calda dove sono forti le incursioni delle bande paramilitari e dove è fiorente il contrabbando che provoca gravi danni economici. E come sottolinea il politologo argentino Atilio Boron, "lì si annidano settori animati da un forte spirito secessionista che, se le condizioni interne si deteriorassero, potrebbero convertirsi in una fondamentale testa di ponte per facilitare un intervento straniero in Venezuela".

La coalizione d'opposizione Mud (Mesa de la Unidad Democrática) conquista due Stati in più rispetto alle precedenti consultazioni, ma registra una flessione di circa tre milioni di voti. Per questo ha subito gridato ai brogli, senza comunque apportare alcuna prova e contro l'opinione degli osservatori internazionali. Va inoltre segnalato che nello Stato di Zulia saranno convocate nuove consultazioni: il governatore eletto, l'antichavista Juan Pablo Guanipa di Primero Justicia, si è rifiutato di prestare giuramento davanti all'Anc, l'Asamblea Nacional Constituyente da lui ritenuta illegittima, e non ha potuto perciò prendere possesso della sua carica. La scelta degli altri quattro governatori dell'opposizione, appartenenti al partito Acción Democrática, di sottostare al giuramento ha provocato una rottura all'interno della Mud: l'ex candidato presidenziale Henrique Capriles ha annunciato il suo ritiro dalla coalizione, in segno di protesta contro quello che considera un tradimento.

L'opposizione del resto si era già divisa in settembre sulla decisione di accettare un nuovo contatto con il governo, come più volte sollecitato da Nicolás Maduro. I colloqui, tenutisi in settembre a Santo Domingo con la mediazione dell'ex capo del governo spagnolo, Rodríguez Zapatero, e del presidente dominicano Danilo Medina, non sono comunque andati oltre la fase esploratoria.

Più unito sul piano politico appare il fronte bolivariano, che il 30 luglio aveva vinto la grande scommessa con l'elezione dell'Asamblea Constituyente: oltre otto milioni di votanti (il referendum antigovernativo convocato dall'opposizione due settimane prima era arrivato, secondo gli organizzatori, a cinque milioni). Il 30 luglio è stato detto un chiaro no alla violenza - che da aprile aveva provocato 125 morti - ed è stata sconfitta la strategia destabilizzante della Mud. Falliti anche i tentativi apertamente golpisti: a fine giugno l'attacco con lancio di granate da un elicottero contro l'edificio del Tribunal Supremo de Justicia, in agosto l'assalto al Fuerte Paramacay a Valencia da parte di militari in rivolta. La Costituente ora sessiona a pieni poteri, sotto la presidenza dell'ex ministra degli Esteri Delcy Rodríguez.

L'amministrazione Maduro deve però far fronte alla pesante crisi economica, aggravata dalle sanzioni imposte da Washington in agosto, che non colpiscono più singoli funzionari governativi, ma tutto il paese. Le autorità cercano di controbattere il continuo rialzo dei prezzi con periodici aumenti salariali e attraverso il programma Clap (Comités Locales de Abastecimiento y Producción), che cura la distribuzione di alimenti nei quartieri popolari. Dalla Russia Nicolás Maduro ha inoltre ottenuto una proroga nel pagamento del debito, cui il Venezuela in questo momento non è in grado di far fronte.

Non si arresta intanto l'offensiva orchestrata dalla destra continentale contro la Rivoluzione Bolivariana. Dalla nuova sospensione "a tempo indeterminato" del Venezuela dal Mercosur, votata il 5 agosto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay per "rottura dell'ordine democratico", alla Declaración de Lima di tre giorni dopo, con cui undici paesi latinoamericani e il Canada hanno dichiarato di considerare illegittima l'Asamblea Constituyente, alle minacce di Trump che ha ventilato la possibilità dell'invio di truppe statunitensi. Per non parlare della politica apertamente di parte dell'Organización de los Estados Americanos: in ottobre il segretario generale dell'Oea, Luis Almagro, ha avallato l'insediamento di un Tribunal Supremo de Justicia "in esilio", designato dall'opposizione.

26/10/2017


Colombia, tra speranze di pace e nuovi massacri

Tra mille contraddizioni, la Colombia si avvia verso la pace. Dal primo ottobre è in vigore una tregua temporanea (fino al 9 gennaio) tra le forze governative e l'Ejército de Liberación Nacional: è il primo tangibile frutto dei colloqui in corso da febbraio a Quito. Il leader dell'Eln, Nicolás Rodríguez, ha impartito ai guerriglieri l'ordine di "interrompere ogni tipo di attività offensiva per attenersi pienamente alla cessazione bilaterale del fuoco". E alle forze armate è stato comandato di sospendere le operazioni contro la guerriglia. Il controllo della moratoria sarà realizzato da delegati delle Nazioni Unite, del governo, degli insorti e della Chiesa cattolica.

Poche settimane prima le Farc - che il 15 agosto avevano completato il loro disarmo - avevano tenuto il loro congresso, costituendosi in partito politico con il nome di Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común e scegliendo come simbolo una rosa con una stella rossa all'interno (secondo alcuni critici, un po' troppo simile al fiore socialdemocratico). Il primo settembre Rodrigo Londoño Timochenko aveva preso la parola a Bogotá, nel corso dell'evento pubblico con cui il nuovo raggruppamento si era presentato al paese. Davanti a decine di migliaia di persone, aveva ripreso una frase di Eliécer Gaitán: "Lo Stato continua a rappresentare gli interessi di un gruppo minoritario, quando dovrebbe rappresentare tutte le classi e difendere specialmente quella che ne ha bisogno, ossia la grande maggioranza dei diseredati. Proponiamo alla Colombia di porre fine a tanto amara realtà". Nei giorni successivi Timochenko veniva designato presidente dalla struttura dirigente del partito.

Dal 6 al 10 settembre la Colombia ha ricevuto anche la visita di papa Francesco, che ha voluto così mostrare il suo appoggio al processo di pace, verso il quale tanti alti prelati locali si mostrano ancora troppo tiepidi. Ma la fine della violenza è ancora lontana. Continuano infatti nella più totale impunità gli omicidi di dirigenti sindacali e comunitari. Secondo la Defensoría del Pueblo, solo nei primi mesi dell'anno le vittime sono state oltre cinquanta e l'elenco non fa che allungarsi. In luglio sono stati assassinati Héctor Mina, membro di Marcha Patriótica e leader riconosciuto dell'organizzazione afro del dipartimento del Cauca, ed Ezequiel Rangel, dirigente contadino impegnato a promuovere, nella regione del Catatumbo, gli accordi di pace tra Farc e governo.

E il 5 ottobre a Tumaco, nel dipartimento di Nariño, sei contadini sono rimasti uccisi (un settimo morirà qualche giorno dopo in ospedale) e una ventina feriti mentre tentavano di impedire lo sradicamento delle coltivazioni di coca, loro unico mezzo di sostentamento. La versione iniziale delle autorità, che accusava della strage un gruppo di guerriglieri dissidenti, è stata ben presto smentita dalle testimonianze dei sopravvissuti e dai risultati degli esami balistici: ad aprire il fuoco contro manifestanti pacifici sono stati i membri della polizia antinarcotici. Iván Márquez, della Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, in una conferenza stampa ha denunciato la mancata attuazione degli accordi di pace dell'Avana, che prevedevano "la sostituzione concordata delle coltivazioni illegali e non la repressione con proiettili e gas".

13/10/2017


Messico, solidarietà umana e corruzione statale

Come nel 1985. Dopo il disastroso terremoto di 7,1 gradi che il 19 settembre (tragica fatalità: lo stesso giorno di 32 anni fa) ha colpito vaste zone di Morelos, Puebla, Estado de México, Guerrero e della capitale, facendo oltre 300 vittime, è scattata una gara di solidarietà. Migliaia di giovani e meno giovani sono accorsi ad aiutare, a scavare tra i resti degli edifici cercando superstiti, a distribuire acqua, a organizzare la raccolta di viveri e indumenti per quanti avevano perso tutto. Le stesse scene si erano viste pochi giorni prima in Chiapas, Oaxaca e Tabasco, devastati dalla micidiale scossa del 7 settembre (8,2 gradi; 90 morti). Di fronte alla tragedia è emerso il Messico migliore, generoso, pronto a operare senza risparmiarsi.

Come nel 1985, alle autorità vanno addebitate molte delle conseguenze drammatiche delle scosse, per aver chiuso entrambi gli occhi (in cambio di tangenti) di fronte al mancato rispetto delle norme antisismiche. 32 anni fa, davanti alla catastrofe, lo Stato fu completamente assente. La società civile si incaricò di riempire il vuoto di potere: si costituirono squadre di salvataggio e si crearono tendopoli per i senzatetto. Il coordinamento dei soccorsi a Città del Messico fu per tre o quattro giorni in mano ai suoi abitanti. Il presidente Miguel de la Madrid, priista, non si fece sentire per 36 ore. E nei giorni successivi il governo, appoggiato dai mezzi di comunicazione, cercò di ridimensionare il bilancio delle vittime (decine di migliaia, il numero esatto non si saprà mai) e di cancellare al più presto dalle vie del centro i segni dell'enorme ferita. L'obiettivo del potere era un veloce "ritorno alla normalità": in gioco vi era la preparazione dei Mondiali di calcio, che il Messico doveva ospitare l'anno successivo. Bisognava dimostrare che il paese non era in ginocchio, che era in grado di accogliere l'atteso evento.

Ma la gente non diede retta agli inviti a rimanere in casa. Il 27 settembre si tenne la prima mobilitazione: più di 30.000 persone sfilarono in silenzio e, con caschi e mascherine a ricordare il lavoro svolto tra le macerie, raggiunsero il palazzo presidenziale per chiedere un effettivo programma di ricostruzione per i settori popolari. E il 24 ottobre nasceva, dall'unione di una quarantina di organizzazioni, la Coordinadora Unica de Damnificados. L'impatto di quei giorni però andò ben oltre, facendosi sentire nelle elezioni del 1988 dove solo i brogli permisero al Pri di mantenersi al potere, sconfiggendo la candidatura di Cuauhtémoc Cárdenas.

Questa volta l'intervento dello Stato non è mancato, ma non certo nella direzione sperata. Dal 1985 la situazione politica è cambiata, nel governo federale e in quelli statali, ma la corruzione è rimasta e ha pervaso anche gli altri partiti dello schieramento, dal Pan al Prd, quest'ultimo da tempo in mano all'ala centrista de Los Chuchos. Dopo aver riconquistato il potere nel 2012, il Pri si è ripromesso di non lasciare spazio all'iniziativa della cittadinanza mobilitando, fin dal giorno successivo alla scossa, esercito e marina. Peccato che l'invio dei militari, malamente coordinati come denunciato da più parti, sia servito solo ad allontanare i tantissimi volontari che avevano lavorato per ore alla ricerca di sopravvissuti. E in molte zone già compaiono le scavatrici a rimuovere le rovine.

La rivista Proceso documenta quanto accade all'alba del 22 settembre nella colonia Roma della capitale, dove più numerosi sono stati i crolli: le macchine iniziano a demolire quanto resta del Laboratorio Cencon, dove due donne sono ancora sepolte. I militari assicurano che non vi sono segni di vita, ma - fanno notare i familiari - le forze armate non hanno in dotazione i sofisticati strumenti che permettono di cogliere eventuali segnali come il calore dei corpi o il più piccolo movimento. Strumenti che invece molti gruppi di volontari organizzati potrebbero utilizzare, se non fossero tenuti lontano dal teatro delle operazioni. Lo testimonia un video di Guerrilla Comunicacional, in cui il responsabile di una squadra di tecnici altamente specializzati si lamenta del fatto che l'esercito impedisca l'accesso, rifiutando la loro preziosa collaborazione.

Le associazioni per i diritti umani accusano inoltre le autorità federali e locali di requisire quanto raccolto spontaneamente dalla popolazione per porlo sotto l'etichetta dell'agenzia governativa Dif. Un filmato ampiamente circolante in rete mostra l'arrivo, nello Stato di Morelos, di camion colmi di viveri provenienti dal Michoacán: le scorte di cibo, anziché essere ripartite tra i terremotati, vengono dirottate verso i magazzini già strapieni dell'agenzia, perché - questa la motivazione - mancano le borse per la distribuzione.

Nel frattempo si continua a parlare di Frida Sofía, la bambina individuata sotto le macerie del Colegio Enrique Rébsamen. La vicenda ha tenuto incollati davanti ai televisori milioni di messicani e non solo, riportando alla memoria il caso italiano di Vermicino. Ma con un finale diverso: la scoperta che Frida Sofía non è mai esistita. Non si sa come sia nata la voce di una piccola sopravvissuta che riusciva a comunicare con i soccorritori, ma è certo che gli sforzi per il suo "salvataggio" sono stati ampiamente sfruttati da Televisa, emittente legata al governo, per ampliare il suo share. Uno show che ha passato in secondo piano la morte, drammaticamente reale, di una ventina di bambini. Anche qui le responsabilità ufficiali sono enormi: la scuola, costruita negli anni Ottanta, aveva visto recentemente l'aggiunta abusiva di un sopralzo, nell'indifferenza di quanti avevano l'obbligo di intervenire.

23/9/2017


Guatemala, di nuovo in piazza contro la corruzione

Nel corso di uno sciopero generale per chiedere la rinuncia del presidente Jimmy Morales, migliaia di persone hanno manifestato il 20 settembre davanti al Congresso e alla sede del governo, denunciando la connivenza tra i poteri che ha garantito al capo dello Stato di sfuggire all'autorità giudiziaria. Alcuni avvocati del gruppo Alianza por las Reformas, impegnati nella lotta contro la corruzione, hanno presentato un'azione legale contro 107 parlamentari (su 158) per ostruzione della giustizia e risoluzioni contrarie alla Costituzione.

È stato infatti il voto dei deputati a permettere a Morales di conservare l'immunità presidenziale, sottraendosi alle indagini avviate dalla fiscal general Thelma Aldana e dalla Cicig (l'organismo dell'Onu contro l'impunità), che gli contestano il reato di finanziamento illegale nella campagna elettorale del 2015. Il Congresso ha anche approvato una riforma al codice penale per consentire ai segretari generali dei partiti politici di non essere chiamati a rispondere di quello stesso reato.

La manifestazione del 20 è solo l'ultima di una serie di iniziative di protesta in tutto il paese. L'ex comico televisivo Jimmy Morales, eletto due anni fa dopo le mobilitazioni di massa che avevano contribuito alla caduta del suo predecessore Pérez Molina, non ha mantenuto le promesse di un'amministrazione pulita: non solo su di lui pesano pesanti sospetti di irregolarità, ma uno dei suoi figli e un fratello sono in carcere per corruzione. E non ha certo contribuito a migliorarne l'immagine pubblica il tentativo di Morales di bloccare l'inchiesta sul suo conto, ordinando l'espulsione dal paese del titolare della Cicig, il magistrato colombiano Iván Velásquez.

Dopo aver suscitato numerose proteste internazionali e provocato anche una crisi di governo, con le dimissioni di alcuni ministri, il provvedimento di espulsione di Velásquez è stato sospeso dalla Corte Costituzionale. Morales può comunque contare ancora sui settori più conservatori della società, di cui è espressione il suo raggruppamento di destra, il Frente de Convergencia Nacional, legato ai veterani delle forze armate responsabili di innumerevoli violazioni dei diritti umani durante la guerra civile.

21/9/2017


Messico, giornalisti e oppositori spiati dal governo

Giornalisti sempre più nel mirino. Il 14 giugno è stato rinvenuto il corpo carbonizzato di Salvador Adame Pardo, direttore di Canal 4TV di Múgica, Stato di Michoacán: era stato sequestrato in maggio. Il 22 agosto è stato ucciso a Hueyapan de Ocampo, Veracruz, Cándido Ríos Vázquez, corrispondente del Diario de Acayucan e fondatore de La Voz de Hueyapan. Ríos Vázquez aveva già ricevuto intimidazioni (era stato anche aggredito nel 2012 da autorità locali) e per questo era sotto protezione. Il 5 settembre a Yuriria, Guanajuato, è stato assassinato sulla porta di casa Juan Carlos Hernández Ríos: collaborava per un portale, La Bandera Noticias, che era stato più volte minacciato.

Le vittime non sono solo messicane. Il 9 luglio nello Stato di Veracruz è stato colpito a morte il cineoperatore honduregno Edwin Rivera Paz, impegnato a documentare la vita dei migranti centroamericani. Rivera si era rifugiato in Messico dopo l'assassinio in gennaio, a San Pedro Sula (la città più violenta dell'Honduras), del giornalista televisivo Igor Abisaí Padilla Chávez, con cui aveva lavorato per il canale Hable como habla.

E il 29 luglio, a Puebla, è stata uccisa Meztli Sarabia Reyna, appartenente all'Unión Popular de Vendedores Ambulantes 28 de Octubre. Accanto al corpo i sicari hanno lasciato un messaggio di minacce nei confronti del padre di Meztli, Rubén Sarabia Simitrio, leader storico della 28 de Octubre. L'organizzazione, nata negli anni Settanta, raggruppa circa cinquemila soci che si battono contro la speculazione immobiliare e difendono il piccolo commercio e gli strati più poveri della popolazione. Proveniente dal movimento studentesco, Simitrio ha sempre lottato contro gli interessi delle grandi imprese di costruzione e dei politici che le appoggiano: per questo ha subito aggressioni e detenzioni arbitrarie ed è attualmente agli arresti domiciliari. Due suoi figli sono in prigione con l'accusa di narcotraffico.

Oppositori politici e lavoratori dei media non sono solo sotto attacco. Sono anche sorvegliati attraverso un software di produzione israeliana, Pegasus. Ufficialmente il programma, che si insinua negli smartphone, è destinato a combattere terrorismo e delinquenza organizzata. Il governo Peña Nieto l'avrebbe però usato per controllare i telefoni della nota giornalista Carmen Aristegui, degli esperti inviati dalla Comisión Interamericana de Derechos Humanos a indagare sulla scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa, del direttore dell'Instituto Mexicano para la Competitividad Juan Pardinas, promotore di una legge contro la corruzione. Lo scandalo, scoppiato in giugno dopo un articolo apparso su The New York Times, continua a far discutere e la lista degli intercettati si allunga: alla fine di agosto si sono aggiunti anche i nomi di due avvocati che si occupano della morte dell'antropologa Nadia Vera Pérez e del fotografo Rubén Espinosa Becerril. Vera ed Espinosa furono assassinati nel 2015 nella capitale insieme ad altre tre persone, dopo essere fuggiti dallo Stato di Veracruz in seguito alle minacce dell'allora governatore Javier Duarte.

6/9/2017


Argentina, il primo desaparecido dell'era Macri

"Sparizione forzata". Questo il reato su cui si indaga ufficialmente in merito alla scomparsa di Santiago Maldonado, 28 anni, arrestato il primo agosto dalla Gendarmería Nacional nel corso di una brutale repressione contro la comunità mapuche a Esquel (provincia di Chubut). Le autorità non hanno dato finora alcuna risposta alle richieste delle organizzazioni per i diritti umani e alle decine di migliaia di persone che il 7 agosto sono scese in piazza per sollecitare la verità sulla sorte di Santiago e per denunciare l'emergenza sociale che si vive nel paese. Anche durante la grande manifestazione convocata dalla Cgt (Confederación General del Trabajo) il 22 agosto, per protestare contro la politica economica del governo Macri, è stata chiesta la aparición con vida del giovane.

Negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli attacchi alle popolazioni indigene, che rivendicano le loro terre ancestrali finite nelle mani di grandi terratenientes. Tra questi spicca il Gruppo Benetton, che nella Patagonia argentina possiede quasi un milione di ettari. Nella zona di Esquel i nativi avevano recuperato parte dei terreni usurpati, ma contro di loro si è scatenata la violenza della polizia. Secondo il racconto di diversi testimoni, Santiago è stato circondato e picchiato dagli agenti e fatto salire su una camionetta. Da quel momento di lui non si è saputo più nulla.

Il ricorso alla repressione contro la protesta sociale è diventato ormai una costante in Argentina. In luglio, dopo la decisione della transnazionale Pepsico di licenziare seicento dipendenti, un vero e proprio esercito è intervenuto per sgomberare lo stabilimento, che i lavoratori avevano occupato per impedire lo smantellamento degli impianti. Decine i feriti: colpiti dagli agenti anche giornalisti e fotografi che cercavano di documentare l'accaduto. Analogo trattamento era stato riservato il mese prima ai manifestanti che si erano accampati di fronte al Ministero dello Sviluppo Sociale per chiedere un incontro con la titolare del dicastero, Carolina Stanley: volevano denunciare la drammatica situazione creatasi con i licenziamenti di massa e con l'eliminazione dei trattamenti pensionistici a decine di migliaia di nuclei familiari.

25/8/2017


Brasile, il golpe prosegue con la condanna di Lula

La sentenza con cui il giudice Moro ha condannato Lula a nove anni e mezzo di carcere e all'interdizione da ogni incarico pubblico per 19 anni, per un reato di corruzione di cui non esiste alcuna prova (la proprietà di un appartamento a Guarujá, che sarebbe stato ottenuto in cambio di "favori politici"), costituisce la continuazione del golpe consumato nell'agosto 2016 contro Dilma Rousseff. Se confermata in seconda istanza, la condanna impedirebbe infatti all'ex presidente di concorrere nel 2018 per un nuovo mandato. E renderebbe definitiva la regressione del Brasile a un passato in cui ai lavoratori e agli strati più svantaggiati era negato qualsiasi diritto. Lo dimostra la nuova legislazione del lavoro sancita dal Senato l'11 luglio, che cancella conquiste ottenute a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso e concede agli imprenditori un enorme potere contrattuale. Una legge che "ci farà ritornare alla schiavitù", ha commentato la senatrice petista Fátima Bezerra.

Gli scioperi generali (a quello del 28 aprile è seguito un secondo il 30 giugno) e le proteste di massa, contro questa riforma e contro le misure di austerità che stanno impoverendo sempre più la popolazione, si scontrano con una repressione selvaggia. In maggio Temer è arrivato a mettere in campo l'esercito per "difendere" le sedi dei Ministeri a Brasilia: una misura, ritirata dopo meno di 24 ore di fronte a una valanga di critiche, che ha evidenziato ancor più la debolezza del regime.

La presidenza Temer sembra avere i giorni contati, la corruzione (questa sì provata) dell'illegittimo capo dello Stato lo rende sempre più indifendibile agli occhi dei suoi stessi alleati. Ma l'eredità che lascerà al paese è pesante e non solo sul piano interno. Dal 6 al 13 novembre effettivi dell'esercito Usa parteciperanno per la prima volta a esercitazioni militari, insieme a Brasile, Colombia e Perù, nell'Amazzonia brasiliana. Le unità verranno addestrate nell'assistenza a personale impegnato in regioni impervie, come avviene "nelle operazioni di pace e di aiuti umanitari".

Al di là della facciata pacifista, l'iniziativa - che consente al Southern Command l'ingresso in una zona ricca di risorse naturali e con la maggiore biodiversità del pianeta - segna un giro di 180° nella politica estera di Brasilia, che anche con la destra al potere aveva sempre mantenuto una relativa autonomia nei confronti di Washington. I governi del Pt avevano approfondito questa autonomia puntando sull'integrazione regionale. Uno degli artefici in tal senso fu proprio Marco Aurélio Garcia, consigliere di Lula e di Dilma per le questioni internazionali, stroncato da un infarto il 20 luglio.

La base delle esercitazioni di novembre sarà la città di Tabatinga (Stato di Amazonas), nei pressi della località colombiana di Leticia e dell'isola peruviana di Santa Rosa. "Basta guardare la carta dello Stato di Amazonas - scrive il politologo argentino Juan Manuel Karg - per avvertire la gravità regionale dell'annuncio: a nord il Venezuela; a sud, dopo un brevissimo passaggio per lo Stato di Acre, la Bolivia. Paesi che si contrappongono geopoliticamente a Washington come lo faceva - anche se in diverso grado, è chiaro - il Brasile prima dell'impeachment a Dilma Rousseff. Dall'altro lato della frontiera colombiano-peruviana l'Ecuador, che ha appena votato per la continuazione dell'esperienza della Revolución Ciudadana, guidata per un decennio da Rafael Correa Delgado che nel 2009 giunse a smantellare la base che gli Stati Uniti avevano a Manta".

21/7/2017


Colombia, le Farc dicono addio alle armi

"La nostra unica arma sarà la parola": questa frase di Rodrigo Londoño Timochenko segna il passaggio delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia alla lotta politica. Il 27 giugno a Mesetas (dipartimento del Meta) una cerimonia ha suggellato la conclusione della consegna delle armi individuali agli incaricati delle Nazioni Unite: con la loro fusione verranno costruiti tre monumenti. Al presidente Santos, che ringraziava le Farc per aver onorato i propri impegni, Londoño ha ricordato gli ex guerriglieri assassinati in questi ultimi mesi e ha denunciato la mancanza, da parte dello Stato, di azioni più decise per fermare gli omicidi di dirigenti sociali impegnati nel processo di pace.

Chi non si rassegna a una soluzione politica del conflitto, infatti, continua a colpire. Tra le più recenti vittime il leader sindacale dell'Universidad del Valle Mauricio Vélez López, sequestrato e assassinato il 21 giugno nel dipartimento del Cauca. Il 7 giugno, nella sua abitazione nel dipartimento dell'Atlántico, era stato ucciso Bernardo Cuero Bravo, dirigente di Afrodes (Asociación Nacional de Afrocolombianos Desplazados). Nonostante fosse stato più volte minacciato, Bernardo Cuero non aveva ottenuto alcuna protezione da parte delle autorità.

E i fautori della guerra civile ricorrono anche al terrorismo. Il 17 giugno, a Bogotá, l'esplosione di un ordigno in un affollato centro commerciale ha provocato la morte di tre donne e il ferimento di altre undici persone. Questo attacco "può venire solo da chi vuole chiudere la strada della pace e della riconciliazione", ha commentato Timochenko attraverso Twitter. Analoga analisi è contenuta in un comunicato dell'Eln, che segnala come unico obiettivo dell'attentato "quello di delegittimare gli insorti e i processi di dialogo, partecipazione e pace". Non va dimenticato che uno dei punti fondamentali degli accordi, ancora in attesa di essere attuato, è la riforma agraria integrale: uno spauracchio per quanti hanno finora spadroneggiato nelle campagne con l'aiuto delle bande paramilitari.

28/6/2017


Venezuela, continua l'offensiva golpista

Da quando, agli inizi di aprile, gli antichavisti hanno dato il via a una nuova seconda ondata di azioni destabilizzanti, sulla falsariga di quanto avvenuto nel 2014, i morti sono già 75. Atti di violenza, saccheggi, incendi di edifici pubblici, distruzioni di autobus si susseguono quasi quotidianamente, ad opera di bande organizzate che agiscono con tattiche militari. I tentativi di dialogo sono falliti per l'atteggiamento intransigente dell'opposizione, all'interno della quale le frange estremiste hanno da tempo preso il sopravvento: l'obiettivo è quello di rendere ingovernabile il paese per giustificare un golpe (poco probabile però, data la lealtà finora dimostrata dalle forze armate alla Repubblica Bolivariana) o un intervento esterno di tipo "umanitario". Quanto alla maggioranza della popolazione, appare nettamente divisa in due: lo evidenziano le grandi manifestazioni contrapposte come quelle che il 19 aprile a Caracas hanno portato in piazza, da una parte e dall'altra, centinaia di migliaia di persone.

Alle tensioni interne si aggiungono le pressioni dei governi di destra del continente (Stati Uniti in testa), appoggiati dall'apparato mediatico internazionale. La tesi dominante su stampa e tv è quella di un esecutivo che risponde con la più brutale repressione al desiderio di libertà di un popolo. La realtà è ben diversa: la maggior parte delle vittime è costituita da sostenitori del presidente Maduro, talvolta linciati o dati alle fiamme, o da persone estranee agli scontri. Alle forze di polizia è proibito opporsi ai manifestanti con armi da fuoco, possono utilizzare solo idranti e lacrimogeni. Casi comprovati di violazione di queste norme sono stati puniti: tre membri della Guardia Nacional Bolivariana sono stati arrestati per aver sparato contro i dimostranti il 19 giugno, ferendo a morte un giovane.

Del piano destabilizzante fa parte anche il sabotaggio dell'economia. Gli strumenti sono molteplici: dalla speculazione realizzata sul cambio della divisa al mercato nero, al mancato approvvigionamento di beni di prima necessità attraverso cui si alimenta l'inflazione; dagli ostacoli frapposti alle transazioni monetarie con la conseguente scarsità di liquidi, al blocco bancario internazionale che strangola finanziariamente il paese. Senza contare che il Venezuela è già in crisi per il crollo del prezzo del petrolio. Di fronte all'incremento del debito estero crescono le voci che - contro la posizione ufficiale - chiedono la sospensione dei pagamenti e denunciano la sproporzionata mole degli interessi imposti dai creditori.

A tutto questo si aggiungono gli errori dell'esecutivo, ammessi dagli stessi sostenitori: troppe concessioni ai settori imprenditoriali nella speranza di attrarre investimenti, eccessivo burocratismo, apertura a grandi progetti di sfruttamento minerario contestati dagli ambientalisti. E c'è chi segnala un'eccessiva tolleranza verso i casi di corruzione, nonché la presenza di opportunisti all'interno del gruppo di potere. Errori che non giustificano la posizione di alcune frange del cosiddetto Chavismo Crítico, ad esempio Marea Socialista (organizzazione fino a poco tempo fa parte del Psuv), che vedono nella "deriva autoritaria" del governo Maduro il principale nemico da battere. In un articolo dal significativo titolo ¿Quién es el enemigo, camaradas de Marea Socialista?, Jorge Martin - che pur ha spesso disapprovato la politica dell'esecutivo - controbatte questa tesi: "Una cosa è criticare il governo e le sue politiche, altra cosa è ignorare che esiste un'offensiva controrivoluzionaria per abbatterlo che, lungi dal migliorare le cose, le peggiorerebbe all'ennesima potenza dal punto di vista della classe lavoratrice e del popolo. In questa battaglia non siamo neutrali. Non possiamo essere neutrali".

La spaccatura all'interno delle file chaviste riguarda anche la convocazione dell'Assemblea Costituente. Un duro attacco a questa iniziativa è venuto dalla procuratrice generale Luisa Ortega Díaz, da tempo in rotta di collisione con il chavismo ufficiale, tanto che il presidente Maduro l'ha accusata apertamente di "tradimento". Ortega ha presentato una serie di ricorsi davanti al Tribunal Supremo de Justicia: il capo dello Stato può proporre una nuova Constituyente - sostiene - ma tale proposta deve essere ratificata da un referendum popolare. Intanto il Venezuela bolivariano ha vinto una battaglia: il 47° vertice dell'Oea, che nelle intenzioni di Usa, Messico (paese ospitante) e alleati avrebbe dovuto portare a una condanna del governo di Caracas, si è concluso il 21 giugno a Cancún senza giungere a un accordo e senza che venisse approvata alcuna risoluzione.

23/6/2017


Al Messico il ruolo di "portinaio" degli Usa?

Una Conference on Prosperity and Security in Central America, promossa congiuntamente da Stati Uniti e Messico alla presenza di esponenti del mondo degli affari e dei rappresentanti dei governi di Guatemala, Honduras e Salvador, si è svolta a metà giugno a Miami. In realtà, più che discutere di prosperità e sicurezza in Centro America, la conferenza mirava a disegnare le nuove strategie per una maggiore presenza militare di Washington e per l'aumento degli investimenti e della vendita di armi statunitensi nella regione.

In questo contesto risulta cruciale il ruolo del governo di Peña Nieto. Un documento sottoscritto in maggio da decine di organizzazioni sociali messicane, centroamericane e statunitensi denunciava la pericolosa deriva della politica di Città del Messico: "In base a dichiarazioni ufficiose di funzionari del Ministero degli Esteri si può intuire che, in cambio del miglioramento della piattaforma di negoziato del Tlcan tra i due paesi, il governo messicano starebbe infine per concedere la realizzazione di operazioni ufficiali dell'esercito Usa su territorio nazionale". Lo stesso titolare del dicastero degli Esteri, Luis Videgaray, ha fatto allusione a questa trattativa con il vicino del Nord. Da notare che, per compiacere il potente alleato, Videgaray si è recentemente distinto negli attacchi al governo del Venezuela, rivaleggiando con il segretario generale dell'Oea, Almagro.

Washington sta dunque estendendo la sua penetrazione nell'intera area: era già apparso chiaro in aprile, quando a Cozumel si era tenuta la Centsec 2017, la Central American Defense Conference organizzata da Usa e Messico con la partecipazione di tutti gli Stati centroamericani (Nicaragua compreso). In quell'occasione era stato annunciato che il Southern Command statunitense avrebbe garantito appoggio tecnologico e di intelligence a una forza composta da militari messicani e guatemaltechi, incaricata della vigilanza alla frontiera tra le due nazioni. Una delle basi operative di questa forza congiunta sarà situata nella zona guatemalteca del Petén, dove passa una delle rotte dei migranti diretti verso il Nord.

Fermare i migranti, assimilati a terroristi e narcotrafficanti, sembra infatti essere uno degli obiettivi prioritari del progetto. In questo piano il Messico appare "eccessivamente disposto a svolgere il ruolo di portinaio degli Stati Uniti", ha denunciato Erika Guevara Rosas, responsabile per le Americhe di Amnesty International. I due governi hanno violato in maniera sistematica il diritto di asilo di migliaia di persone in fuga dalla violenza, sostiene un rapporto della ong.

Se il presidente Obama si valeva degli aiuti economici ai paesi dell'area per imporre i voleri della Casa Bianca, Trump preferisce il bastone alla carota, scrive su Nacla la ricercatrice Hillary Goodfriend. "Sotto la guida del segretario del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale ed ex capo del Southern Command, John Kelly, l'amministrazione ha proposto grossi tagli agli aiuti all'estero e all'assistenza ai rifugiati e si appoggia sul Messico perché faccia ancora di più lo sporco lavoro degli Stati Uniti di trattenere, controllare e deportare i centroamericani, così come di militarizzare ulteriormente il suo confine meridionale con il Guatemala e di addestrare le forze di sicurezza del Centro America".

E per non lasciare dubbi su chi comanda, in aprile Kelly non aveva esitato, davanti a una Commissione del Senato Usa, a intromettersi pesantemente negli affari interni del paese confinante. Riferendosi al crescente sentimento antistatunitense nella popolazione messicana (irritata per la costruzione del muro) e alla conseguente possibilità di una vittoria della sinistra alle prossime presidenziali, Kelly aveva dichiarato apertamente: un presidente di sinistra non sarebbe buono né per gli Stati Uniti né per il Messico. Non aveva fatto nomi, ma è chiaro che Washington non intende tollerare un trionfo di López Obrador nelle elezioni del 2018.

17/6/2017


Colombia, denunciate le inadempienze del governo

A fine maggio è scaduto il termine di sei mesi previsto per la consegna delle armi da parte delle Farc e per la fine delle cosiddette Zonas Veredales Transitorias de Normalización. Ma il ritardo con cui procedono le operazioni ha reso necessario stabilire una proroga di due mesi. Nelle file della guerriglia cresce la sfiducia di fronte alle inadempienze del governo: in alcuni casi, nelle aree di raduno degli ex combattenti, non è ancora terminata la costruzione delle strutture di accoglienza (avrebbero dovuto essere pronte entro il primo dicembre). Alimenti e altri beni di prima necessità non arrivano o arrivano troppo tardi. Procede con il rallentatore, per le proteste o il rifiuto dei giudici, la concessione delle amnistie ai membri delle Farc ancora in carcere. A complicare le cose una recente sentenza della Corte Costituzionale contro due allegati dell'Acto Legislativo para la Paz, approvato nel dicembre scorso per sveltire l'applicazione degli accordi. E negli ultimi giorni si è registrato l'arresto immotivato di due ex guerriglieri (uno dei due è stato poi rilasciato).

Le preoccupazioni in merito all'attuazione degli accordi sono state sottolineate il 20 maggio dal leader delle Farc, Rodrigo Londoño Timochenko, in una lettera al presidente Santos. "Nessuno può dire, senza ricorrere alla menzogna e alla calunnia, che abbiamo mancato in qualche modo ai nostri impegni. Nonostante questo, sentiamo arrivare tempi di incertezza. Il governo nazionale tiene fede troppo lentamente alla sua parola. Gli altri poteri oscillano o agiscono in modo sospetto in rapporto a quanto accordato". Tra gli elementi più gravi la presenza paramilitare, comprovata dai rappresentanti delle Nazioni Unite. "Con il nome di Nuevas Guerrillas Unidas del Pacífico, al comando di un certo David, le bande armate che prima erano forti a San Sebastián, San Juan, Pital e San Pedro sono cresciute improvvisamente, occupando tutti i fiumi alla frontiera con l'Ecuador, con un piano senza dubbio molto ben preparato" e con un chiaro scopo: le coltivazioni illegali e il business della droga. "Un tale spiegamento risulta inesplicabile senza la collaborazione delle autorità militari": questa la denuncia di Timochenko. Che agli inizi di giugno, di fronte ai continui ostacoli frapposti dalla controparte, è giunto a chiedere attraverso Twitter "una supervisione internazionale".

Della minaccia rappresentata dai paramilitari si è parlato anche all'Avana, nella conferenza stampa congiunta tenuta da Farc ed Eln l'11 maggio. "Fino ad oggi non vediamo la volontà di una lotta frontale da parte dello Stato e del governo contro il paramilitarismo", ha dichiarato il leader dell'Eln, Nicolás Rodríguez Gabino. Nei giorni precedenti le direzioni dei due gruppi guerriglieri si erano incontrate nella capitale cubana, "con il proposito di unire le forze per la soluzione politica del conflitto". In un comunicato reso pubblico al termine delle riunioni, Farc ed Eln affermano di avere "obiettivi comuni, con percorsi diversi ma complementari, come quello di far sì che la società abbia un ruolo da protagonista nel raggiungimento della pace". Concordano inoltre nel mettere al centro i diritti delle vittime "perché si arrivi alla piena verità su questi settant'anni di tragedia nazionale, che permetta ai governi, alle classi dominanti e agli insorti di assumere ciascuno le sue responsabilità, al fine di risolvere le cause che generarono questo confitto sociale, politico e armato".

6/6/2017


Messico, nasce il Concejo Indígena de Gobierno

"Una sollevazione indigena non violenta". Così il Cni (Congreso Nacional Indígena) e l'Ezln hanno definito la costituzione del Concejo Indígena de Gobierno, al termine di un'assemblea a San Cristóbal de las Casas (Chiapas) che ha visto la partecipazione di 1.252 rappresentanti di diverse comunità e 230 delegati zapatisti. Portavoce del Concejo, composto da 71 membri, è stata designata l'indigena nahuatl María de Jesús Patricio Martínez, che sarà anche candidata indipendente alle presidenziali del 2018. Originaria di Tuxpan, nello Stato di Jalisco, l'erborista María Patricio Martínez dirige la Calli Tecolhuacateca Tochan, una Casa della Salute in cui si applica la medicina tradizionale.

"Ribadiamo che solo nella resistenza e nella ribellione abbiamo incontrato le strade possibili per continuare a vivere, che in esse vi è la chiave non solamente per sopravvivere nella guerra del denaro contro l'umanità e contro la nostra Madre Terra, ma per rinascere insieme a ogni seme che spargiamo, con ogni sogno e con ogni speranza che si va materializzando in grandi regioni in forme autonome di sicurezza, di comunicazione, di governi indipendenti, di protezione e difesa dei territori - si legge in un comunicato congiunto del Cni e dell'Ezln - Il nostro appello è alle migliaia di messicani e messicane che hanno smesso di contare i loro morti e i loro desaparecidos, che con dolore e sofferenza hanno alzato il pugno e con la minaccia di morte incombente sono insorti, senza temere le dimensioni del nemico".

A un giornalista, che chiedeva l'obiettivo della nomina di Patricio Martínez, ha risposto la concejal Sara: "Perché la nostra portavoce? Per diffondere, denunciare e rendere visibile tutto quello che ci sta distruggendo, che ci sta togliendo la vita, per questo la iscriveremo come candidata, non perché vogliamo il voto". Una candidatura che rappresenti la voce dei popoli originari e che obblighi i media a parlare della lotta delle comunità indigene in difesa dei loro territori, assediati da allevatori di bestiame, talamontes, compagnie minerarie e oggi anche narcotrafficanti.

E proprio sicari del cartello Jalisco Nueva Generación hanno assassinato il 20 maggio i fratelli Miguel e Agustín Vázquez Torres, indigeni wixaritari, che a lungo si erano battuti per il recupero delle terre comunitarie. Un crimine che non ha potuto consumarsi senza la complicità, o almeno l'indifferenza delle autorità statali, come era avvenuto in gennaio con gli ambientalisti Isidro Baldenegro López e Juan Ontiveros Ramos, uccisi a quindici giorni di distanza l'uno dall'altro. La loro colpa: aver difeso i boschi della Sierra Tarahumara, una battaglia per cui Baldenegro aveva ricevuto nel 2005 il prestigioso Goldman Enviromental Prize.

29/5/2017


Argentina, uccisa testimone contro i repressori

È stata trovata morta il 19 maggio nella sua casa di Córdoba, con segni di colpi in testa e un cavo attorno al collo. La polizia parla di omicidio a scopo di rapina, ma l'ipotesi appare poco probabile, anche perché l'abitazione era in perfetto ordine. Elsa Marta Sosa era stata testimone e parte civile in diversi processi per violazione dei diritti umani nella provincia di Mendoza. Era la moglie di Aldo Fagetti, desaparecido nel febbraio 1976 durante il mandato di Isabelita Perón, dopo essere stato sequestrato da una pattuglia di agenti e militari.

Dopo anni di lotta Elsa Sosa aveva ottenuto nel 2007 che il giudice Acosta chiedesse alla Spagna l'estradizione di Isabelita (richiesta poi respinta da Madrid). Elsa non è la prima a pagare con la vita la battaglia per la giustizia: la sua vicenda ricorda quella di Silvia Suppo, assassinata a pugnalate in pieno giorno nel 2010. Sequestrata durante la dittatura, al ritorno della democrazia Silvia aveva denunciato le torture subite e la scomparsa del suo compagno, Reinaldo Hammeter, e la sua testimonianza era stata fondamentale nei processi contro i repressori della provincia di Santa Fe. Nel 2006 era sparito Julio López, testimone chiave contro l'ex commissario Etchecolatz: della sua sorte non si è mai saputo nulla.

Questo nuovo crimine avviene in un momento in cui i responsabili del terrorismo di Stato rialzano la testa, sostenuti da un clima a loro favorevole. Alle dichiarazioni negazioniste di esponenti del governo si aggiungono infatti le sollecitazioni della Chiesa cattolica per una riconciliazione tra i familiari delle vittime e quelle dei militari autori di tante atrocità. E agli inizi di maggio è arrivata la sentenza della Corte Suprema de Justicia, che ha concesso a un ex repressore il beneficio del 2x1 grazie al quale, a partire dal secondo anno di detenzione, i giorni passati in prigione in attesa di giudizio valgono il doppio. Sostenendo che tale beneficio è applicabile anche per i casi di violazione dei diritti umani, il massimo tribunale ha aperto la strada alla possibilità per molti condannati di ottenere la libertà. La sentenza è firmata da tre dei cinque giudici della Corte: due di questi erano stati designati proprio dal presidente Macri. "È abominevole. Il governo intende cancellarci", è stato il commento della presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, Estela Barnes de Carlotto.

La decisione ha suscitato le reazioni indignate non solo dei partiti politici dell'opposizione, ma di gran parte del paese. Il 10 maggio centinaia di migliaia di persone hanno riempito Plaza de Mayo per esprimere il proprio sdegno e riaffermare la determinazione a non tornare indietro in materia di diritti umani. Moltissimi portavano al collo un fazzoletto bianco, in segno di solidarietà con le Madres, e quando lo hanno agitato in aria la piazza è stata attraversata da un'enorme onda bianca. Poco prima il Senato aveva detto sì all'unanimità alla legge, già approvata dalla Camera, che esclude dal 2x1 gli autori di crimini di lesa umanità.

20/5/2017


Messico, il paese più violento dopo la Siria

È stata una morte annunciata. Miriam Rodríguez Martínez aveva già ricevuto molteplici minacce dalla criminalità organizzata, che aveva giurato vendetta da quando questa madre coraggiosa aveva fatto condannare gli uomini che le avevano sequestrato e assassinato la figlia Karen. Ed era stata sempre lei a ritrovare i resti della figlia in una fossa clandestina di San Fernando. La sera del 10 maggio un commando ha fatto irruzione nella sua casa a Ciudad Victoria, nello Stato di Tamaulipas, ferendola a morte. Le sue richieste alle autorità perché le fornissero protezione erano rimaste inascoltate: del resto la sua tenace attività di rappresentante del Colectivo de Familiares de Desaparecidos de San Fernando risultava scomoda per i tanti funzionari che a diversi livelli garantiscono, con la loro complicità, l'impunità generalizzata.

Il giorno prima dell'uccisione di Miriam Rodríguez, un rapporto dell'International Institute for Strategic Studies di Londra segnalava che, dopo la Siria, il Messico è la nazione più violenta al mondo: il numero dei morti ammazzati nel 2016 ha superato quello di Iraq e Afghanistan. L'annuncio era stato respinto con irritazione dal governo di Peña Nieto.

Ma il Messico è anche, nel continente americano, il paese più pericoloso per esercitare il giornalismo. Lo afferma il gruppo di esperti della Commissione Interamericana per i Diritti Umani che ogni anno si incarica di redigere una relazione sulla libertà d'espressione. Le aggressioni e le minacce contro i lavoratori della stampa sono ormai a livelli allarmanti, afferma il rapporto: "Vi sono zone in cui oggi i giornalisti sono sottoposti a una forte intimidazione, originata fondamentalmente da bande delinquenziali interessate a sopprimere un determinato tipo di informazioni dei media e a diffondere quello che serve ai loro interessi criminali". In tale situazione è estremamente difficile realizzare inchieste e articoli su temi quali il crimine organizzato, la corruzione, la sicurezza pubblica e simili.

Nel giro di due mesi e mezzo i killer sono entrati in azione sette volte. Il 2 marzo viene assassinato a Ciudad Altamirano, nello Stato del Guerrero, Cecilio Pineda Brito, collaboratore del settimanale La Voz de Tierra Caliente e dei quotidiani El Universal e La Jornada Guerrero. Pineda, che aveva già subito un attentato due anni prima, stava realizzando un'inchiesta sul narcotraffico nella zona. Il 19 marzo a Yanga (Stato di Veracruz) è la volta di Ricardo Monluí Cabrera, direttore del portale informativo El Político e commentatore de El Sol de Córdoba.

Quattro giorni dopo a Chihuahua viene uccisa Miroslava Breach Velducea, dal 2001 corrispondente de La Jornada: si occupava di temi politici e sociali e aveva indagato il controllo della delinquenza organizzata sui candidati sindaci del Pri e del Pan in alcuni municipi della Sierra Tarahumara. Miroslava Breach lavorava anche per il quotidiano Norte de Ciudad Juárez, che dopo la sua morte ha deciso di cessare le pubblicazioni. "Non esistono le garanzie né la sicurezza per esercitare il giornalismo critico", ha scritto il suo direttore. Il 14 aprile a La Paz, nello Stato di Baja California Sur, i colpi dei sicari raggiungono Maximino Rodríguez Palacios, collaboratore del portale Colectivo Pericú, e il 29 aprile a Tlaquiltenango (Morelos) Filiberto Alvarez Landeros, conduttore di un programma radiofonico presso l'emittente La Señal di Jojutla.

Il 15 maggio ad Autlán, nello Stato di Jalisco, viene gravemente ferita Sonia Córdova, vicedirettrice commerciale del periodico El Costeño; il figlio che viaggiava con lei rimane ucciso. Nello stesso giorno a Culiacán (Sinaloa) muore un altro corrispondente de La Jornada, Javier Valdez Cárdenas, fondatore del settimanale locale Ríodoce. Valdez, che conosceva a fondo i legami tra criminalità organizzata e corruzione governativa, aveva ricevuto nel 2011 l'International Press Freedom Award per "il suo coraggio e la sua attività giornalistica senza concessioni davanti alle minacce". Tra i suoi libri più recenti: Huérfanos del Narco e Narcoperiodismo, la prensa en medio del crimen y la denuncia. "Non parliamo solo di narcotraffico - aveva detto in un'intervista a proposito di quest'ultima opera - Parliamo anche di come ci assedia il governo. Di come viviamo in una redazione infiltrata dal narcotraffico, a fianco di un collega in cui non si può aver fiducia, perché forse è quello che passa informazioni al governo o ai delinquenti".

16/5/2017


Brasile, Lula e il giudice Moro a confronto

"Poiché ritengo che questo processo sia illegittimo e la denuncia una farsa, sono qui per rispetto alla legge e alla Costituzione, ma con molte obiezioni al comportamento dei procuratori di Lava Jato". Così ha esordito Lula chiamato a deporre il 10 maggio davanti al giudice Sérgio Moro. Oltre cinque ore di interrogatorio, nel corso del quale l'ex presidente ha respinto tutte le accuse e ha più volte sottolineato che finora non è stata prodotta nessuna prova concreta a suo carico. Secondo Moro, Lula è proprietario di un appartamento a Guarujá, località balneare nello Stato di São Paulo, che avrebbe ricevuto da un'impresa costruttrice in cambio di favori negli appalti pubblici. "Non ho mai chiesto e non ho mai ricevuto quell'appartamento", ha risposto con fermezza Lula.

Sérgio Moro non gioca certo un ruolo imparziale nel contesto brasiliano. Indiscrezioni selettive e semplici sospetti, fatti filtrare per mesi alla stampa, sono stati fondamentali per creare nell'opinione pubblica un clima ostile al governo Rousseff e al Partido dos Trabalhadores, preparando così il terreno al colpo di Stato. Tra i metodi più contestati di questo magistrato, l'abuso della carcerazione preventiva anche in assenza di prove, per indurre gli arrestati alla "delazione premiata", cioè a implicare altre persone in cambio della libertà provvisoria o di future riduzioni di pena. Ora Moro cerca in tutti i modi di coinvolgere Lula in un caso di corruzione per cancellarlo dalla scena politica e impedire una sua ricandidatura nel 2018.

Terminata la deposizione, di fronte a 50.000 persone venute a manifestargli il loro sostegno l'ex presidente ha denunciato di essere vittima della "maggiore persecuzione giuridica nella storia di questo paese". Non per questo è apparso propenso a rinunciare alla lotta, anzi ha riaffermato l'intenzione di concorrere per un terzo mandato alle elezioni del prossimo anno. "Mi sto preparando per tornare", ha detto. Prima di lui aveva preso la parola Dilma Rousseff per salutare la grande mobilitazione popolare.

In un'intervista concessa al quotidiano argentino Página/12, Dilma ha affermato che l'ex presidente è uscito "magnificamente bene" dal confronto con Moro. "Ha denunciato qualcosa che avviene in Brasile e potrebbe essere in atto in altri paesi. Ha detto che una delle istanze del giudizio non è prevista nello Stato democratico di diritto: i grandi media. I grandi media fanno un processo preventivo. Non c'è un processo esplicito, non c'è diritto di difesa e non c'è dibattimento. Si produce una condanna civile, una demolizione della figura morale della persona. La distruzione fisica annienta il nemico. La distruzione attraverso il lawfare, la guerra giuridica, vuole abbattere la cittadinanza dell'individuo, distrugge il diritto civile di esprimersi".

Sull'utilizzo della legge come arma, Rousseff torna nel corso dell'intervista: "Ad Harvard gli studiosi John e Jean Comaroff hanno analizzato molto bene questo tema. Ho conversato con loro ed esiste lawfare in tutta l'America Latina. Altri teorici parlano di un progresso dello stato d'eccezione con centro nel potere giudiziario. Nel paese c'è una vera e propria impasse. Il governo attuale vuole consegnare al mercato e ai grandi media un progetto totalmente neoliberista di liquidazione di diritti che si cominciarono a costruire negli anni Quaranta del secolo scorso. Diritti dei lavoratori soprattutto. La soppressione di diritti cambia la concezione del rapporto tra imprenditori e lavoratori. La legislazione del lavoro brasiliana concepisce il lavoratore come il soggetto più debole. Pertanto lo Stato entrava in gioco, finora, per regolamentare questo rapporto. Impediva la barbarie nel rapporto di lavoro. Oggi stiamo tornando alla barbarie. Vogliono prolungare la giornata di lavoro o lasciarla a discrezione dell'imprenditore. Mirano a consentire il lavoro delle donne incinte in condizioni insalubri. Ma non finisce qui. La barbarie vuole distruggere i sindacati e ridurre il ruolo del Ministero del Lavoro nell'equilibrare la relazione asimmetrica tra padroni e dipendenti".

13/5/2017


Venezuela, Maduro convoca la Costituente

Il presidente Maduro ha annunciato il primo maggio la convocazione di un'Asamblea Nacional Constituyente per rifondare le strutture dello Stato e sconfiggere i tentativi di golpe. Una Costituente "civica, non di partiti politici", in parte eletta su base territoriale e in parte scelta dai movimenti sociali: sindacati, poder popular, comunità indigene, organizzazioni di donne, gruppi lgbt. La proposta è stata subito respinta dagli oppositori riuniti nella Mesa de la Unidad Democrática, che l'hanno definita "un processo fraudolento".

I tentativi di trovare uno sbocco pacifico alla crisi sono finora naufragati. Il 2 maggio si è tenuta a San Salvador la riunione della Celac, che avrebbe dovuto dibattere la situazione venezuelana e manifestare il suo sostegno al dialogo. Il blocco non ha però potuto giungere a una risoluzione perché sette nazioni (Bahamas, Barbados, Brasile, Messico, Paraguay, Perù, Trinidad and Tobago) non hanno inviato alcuna delegazione.

E mentre continua l'offensiva destabilizzante dell'opposizione, che ha già provocato 39 morti, proseguono gli attacchi degli Stati Uniti all'esecutivo di Caracas, accusato di repressione autoritaria e cattiva gestione economica. Parlando davanti a una commissione del Senato il direttore della Cia, Mike Pompeo, ha affermato: "Vi sono molte armi che circolano in Venezuela e il rischio è incredibilmente reale e serio ed è una minaccia per il Sud America e per il Centro America". Parole che preparano la giustificazione a un futuro intervento.

In un comunicato dell'11 maggio il governo bolivariano "condanna il sordido e funesto piano di ingerenza e di controllo diretto dall'amministrazione Usa in complicità con gruppi di potere di quel paese e deplora che le sue nuove autorità seguano il sentiero già fallimentare dell'era Bush e Obama, non ascoltando l'appello del governo venezuelano a promuovere relazioni diplomatiche di rispetto e uguaglianza". La nota sottolinea che "solo nei primi cinque mesi dell'anno abbiamo osservato oltre 105 azioni e dichiarazioni ostili" e che "il finanziamento e l'appoggio logistico statunitense ai gruppi violenti" hanno facilitato l'insurrezione armata nel paese.

12/5/2017


Brasile, sciopero generale contro Temer

Era dal 1996 che in Brasile non veniva proclamato uno sciopero generale. E quello del 28 aprile ha superato tutte le aspettative: le principali città sono state paralizzate e anche nei centri minori l'adesione è stata massiccia. La giornata ha dimostrato l'ampiezza dell'opposizione al governo Temer. Un governo neoliberista che ha già imposto un tetto alla spesa pubblica per i prossimi vent'anni, con conseguenti pesanti tagli a sanità ed educazione. E che adesso mira alla riforma del diritto del lavoro e della previdenza, con la liquidazione di decenni di conquiste dei lavoratori e l'aumento di età pensionabile e contributi minimi.

Mentre la popolazione si dibatte tra incremento della disoccupazione e miseria in rapida crescita, la classe politica è sommersa dagli scandali. Otto ministri sono sospettati di corruzione, così come un terzo dei parlamentari. L'ex presidente della Camera Eduardo Cunha, che fu l'artefice principale del golpe, è attualmente in galera: ha ricevuto una prima condanna a quindici anni, ma ha altri sei procedimenti in corso. Quanto al presidente illegittimo Temer, il suo nome è già comparso nell'inchiesta su un grosso giro di tangenti. E i suoi tentativi di ottenere riconoscimenti internazionali conseguono magri risultati: solo l'argentino Macri e lo spagnolo Rajoy hanno finora visitato il Brasile. In aprile papa Bergoglio ha risposto negativamente al suo invito formale a recarsi nel paese. Come ha commentato il teologo Leonardo Boff, "il papa non aveva alcun motivo di venire ad appoggiare un golpista, se fosse venuto avrebbe legittimato questo stato di cose". Del resto Bergoglio aveva già chiarito la sua posizione sul colpo di Stato istituzionale quando aveva scritto alla presidente deposta per esprimerle la sua solidarietà.

Nonostante la forte opposizione dimostrata dai lavoratori, Temer - il cui livello di popolarità non arriva al 10 per cento - ha ribadito che il governo continuerà nel suo impegno per la "modernizzazione della legislazione nazionale". La risposta è stata immediata: il primo maggio, le maggiori centrali sindacali del paese hanno proposto una nuova giornata di astensione dal lavoro per fermare le riforme.

2/5/2017


Venezuela, crisi istituzionale e ingerenza Usa

Il Venezuela si prepara a uscire dall'Organización de los Estados Americanos. Lo ha annunciato la ministra degli Esteri, Delcy Rodríguez, dopo la decisione del Consiglio Permanente dell'Oea di convocare a Washington una riunione degli Stati membri per valutare la situazione interna del paese caraibico. Su richiesta di Caracas si riuniranno invece il 2 maggio a San Salvador le nazioni della Celac (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños).

L'Oea da tempo gioca un ruolo palesemente di parte nella crisi venezuelana. Il segretario generale, l'uruguayano Luis Almagro, ha più volte cercato di ottenere il consenso all'applicazione contro Caracas della cosiddetta Carta Democratica, che contempla la sospensione del paese in cui sia avvenuta una "rottura dell'ordine democratico". Senza giungere a tanto, agli inizi di aprile è stata approvata a maggioranza una dichiarazione in cui si afferma che in Venezuela è in atto "una grave alterazione incostituzionale dell'ordine democratico".

Il conflitto istituzionale si era acutizzato a fine marzo con la decisione del Tribunal Supremo de Justicia di assumere le funzioni dell'Asamblea Nacional finché questa non avesse escluso dai lavori i tre deputati la cui elezione era stata contestata per sospetti brogli elettorali (i tre sono essenziali all'opposizione per raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento). Sui media interni e su quelli internazionali si era subito gridato al colpo di Stato, anche se il provvedimento era stato ben presto ritirato. La procuratrice generale Luisa Ortega Díaz aveva infatti affermato che nella sentenza si evidenziavano "diverse violazioni dell'ordine costituzionale e la negazione del modello di Stato consacrato nella nostra Costituzione", spingendo così il governo a chiedere alla Corte Suprema di rivedere la sua posizione.

Sul piano interno, per tutto il mese di aprile si sono registrate violente manifestazioni antigovernative concentrate soprattutto nella capitale, che hanno provocato una trentina di morti e centinaia di feriti. L'obiettivo è quello di destabilizzare il paese, portandolo a una situazione di ingovernabilità. Una strategia accompagnata da dichiarazioni di pesante ingerenza da parte statunitense. In un rapporto al Congresso il comandante del Southern Command, ammiraglio Kurt Tidd, ha affermato che il Venezuela attraversa un periodo di scarsità di farmaci e alimenti, incertezza politica e peggioramento della situazione economica e che la crescente crisi umanitaria potrebbe obbligare a una risposta regionale.

Anche il segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, non ha risparmiato intromissioni nella politica interna del paese, esprimendo la preoccupazione di Washington perché il governo Maduro "viola la Costituzione" e "non permette che l'opposizione si organizzi in modo che la sua voce sia ascoltata". E una nota firmata dal portavoce del Dipartimento di Stato è giunta a minacciare le autorità venezuelane per la "repressione criminale di attività pacifiche e democratiche" e la "flagrante violazione dei diritti umani", avvertendo che saranno chiamate a "renderne conto".

28/4/2017


Paraguay, proteste contro la riforma costituzionale

Il presidente Horacio Cartes, del Partido Colorado, ha deciso di non ricandidarsi alle elezioni del prossimo anno. Rinuncia dunque alla battaglia per la modifica della Costituzione, che attualmente proibisce l'esercizio di più mandati anche non consecutivi. L'emendamento che consentirebbe la rielezione è fortemente osteggiato da una parte dell'opposizione, in particolare dal Plra, il Partido Liberal Radical Auténtico. È sostenuto invece dal Frente Guazú che promuove la candidatura dell'ex presidente Fernando Lugo, destituito da un colpo di Stato istituzionale nel 2012.

Il 31 marzo, dopo l'approvazione dell'emendamento da parte del Senato, le proteste nel centro di Asunción erano state duramente represse dalle forze di sicurezza, provocando una trentina di feriti. Un gruppo di manifestanti era riuscito a penetrare nell'edificio del Congresso, appiccando un incendio. All'alba del giorno dopo la polizia aveva fatto irruzione nella sede del Plra, uccidendo il leader giovanile Rodrigo Quintana. La reazione dell'opposizione aveva spinto il capo dello Stato a licenziare il ministro dell'Interno e il comandante della Policía Nacional.

Nonostante la decisione di Cartes di non ripresentarsi nel 2018, la tensione rimane alta: il Partito Colorado ha infatti annunciato che il progetto di riforma costituzionale, passato ora alla Camera, non verrà ritirato. Ma lo scontro è tutto interno allo schieramento conservatore: i liberali infatti non propongono ricette diverse dalle politiche neoliberiste dell'attuale amministrazione. L'unico periodo che aveva visto un timido tentativo di cambiamento era stato violentemente interrotto dal golpe che aveva posto fine alla presidenza Lugo. Da allora il Paraguay è tornato ad essere il paradiso dei latifondisti e, in campo internazionale, il paese in prima fila nell'attacco ai governi progressisti della regione.

18/4/2017


Sud America, negazionisti all'attacco

In Argentina il processo giudiziario per i crimini di lesa umanità si trova in "stato d'emergenza" per i sempre maggiori ostacoli che si frappongono ai giudizi contro gli ex repressori. Questa la denuncia emersa da un incontro di magistrati, avvocati, parlamentari e rappresentanti degli organismi in difesa dei diritti umani che si è tenuto il 10 aprile. Nel paese che più di tutti aveva progredito nel perseguire il terrorismo di Stato si registra un preoccupante arretramento.

"Il processo di memoria, verità e giustizia ha smesso di essere una politica di Stato - afferma l'avvocata Elizabeth Gómez Alcorta - L'esecutivo ha smantellato quasi tutte le strutture che affiancavano cause penali e magistrati nella ricerca di testimoni e informazioni". "Mancano i giudici e mancano gli spazi fisici per portare avanti le udienze", segnala Angeles Ramos, della Procuraduría de Crímenes contra la Humanidad. Continueranno così a godere dell'impunità non solo numerosi militari, ma anche tanti civili (banchieri, imprenditori, giornalisti) che furono complici della dittatura e da questa trassero profitto.

Mentre si moltiplicano i casi di condannati per sequestro, tortura e omicidio che ottengono il beneficio degli arresti domiciliari con il pretesto dell'età o dello stato di salute, aumentano le dichiarazioni negazioniste di esponenti del macrismo. Proprio in occasione del 41° anniversario del golpe, il 24 marzo, il responsabile della Segreteria dei Diritti Umani, Claudio Avruj, ha nuovamente cercato di ridimensionare il numero dei desaparecidos. Non si tratta di una semplice polemica storica, ma di un preciso messaggio politico che mira a delegittimare il ruolo di Madres e Abuelas de Plaza de Mayo. Come scrive il sociologo Guillermo Levy, la cifra esatta non si conoscerà mai: "Sequestri notturni, silenzio, negazione e distruzione di prove. Non ci sono elenchi, non ci sono confessioni per cui tutto ciò che abbiamo è il frutto del lavoro artigianale e militante di migliaia, di fronte a poteri e silenzi molto più forti dell'energia posta in questa ricostruzione. Chiaramente 30.000 non è oggi il numero della precisione, ma di una posizione. Distruggere questo numero non significa cercare una perfezione quantitativa, ma distruggere un'eredità di lotta a volte solitaria, altre volte di gruppo, di quanti hanno via via costruito, cercato, denunciato e nominato ciò che è avvenuto: un genocidio".

Che l'attacco sia diretto a screditare Madres e Abuelas, costantemente in prima linea contro la politica repressiva del governo, lo dimostrano anche le foto scattate sempre il 24 marzo ai parlamentari della maggioranza, ritratti dietro striscioni con le scritte "I diritti umani non hanno padrone" e "Mai più gli affari dei diritti umani" (era stato lo stesso Macri a definire "un affare sporco" la lotta per i diritti umani).

Ancora più preoccupante la situazione negli altri paesi del Sud America. Lo afferma il brasiliano Jair Krischke, presidente del Movimento de Justiça e Direitos Humanos, al quale Página/12 ha chiesto se nella regione vi siano ancora in azione elementi del Plan Côndor: "Basandomi sui fatti, la risposta che devo dare è sì. Questa gente si sta muovendo per impedire che si conosca la verità e per intimidire la giustizia. Non sto dicendo che il Plan Côndor continua a volare come negli anni Settanta, quando contava sull'apparato degli Stati terroristi di Argentina, Uruguay, Brasile, Cile, Paraguay, ecc. Ora hanno smesso di realizzare sequestri e omicidi in modo coordinato, ma la grande maggioranza dei suoi membri gode ancora della libertà in Cile e in Uruguay, per non parlare del Brasile, perché qui tutti sono liberi grazie all'amnistia che ci ha lasciato la dittatura e che nessun governo civile ha revocato".

E l'anno scorso Temer ha nominato responsabile del gabinetto per la Sicurezza Istituzionale il generale Sérgio Etchegoyen, dando così ai militari un preciso segnale: non devono preoccuparsi di future indagini sul passato. Etchegoyen infatti, durante il mandato di Dilma Rousseff, aveva pubblicamente attaccato la Comissão da Verdade che, pur con molti limiti, cominciava a svelare le implicazioni brasiliane del Plan Cóndor.

Jair Krischke figura nell'elenco di tredici persone minacciate di morte in Uruguay dal sedicente Comando Barneix. Il gruppo prende il nome da un generale a riposo suicidatosi due anni fa, quando stava per essere arrestato sotto l'accusa di aver torturato e assassinato nel 1974 un giovane militante di sinistra. Per ogni nuovo suicidio di militari - afferma il comunicato di questi nostalgici della dittatura - uccideremo tre persone scelte a caso dalla lista. Nel mirino del Comando vi sono personalità impegnate a vario titolo nella difesa dei diritti umani: oltre a Krischke il giurista francese Louis Joinet, la ricercatrice italiana Francesca Lessa, avvocati e magistrati uruguayani e il ministro della Difesa del governo di Montevideo, Jorge Menéndez.

11/4/2017


Gli Usa rafforzano la presenza in Sud America

Con la destra al potere nei due principali paesi sudamericani (elezione di Macri in Argentina, golpe istituzionale in Brasile) si registrano preoccupanti segnali di un ritorno al passato. In particolare assistiamo a una rinnovata presenza, militare e politica, degli Stati Uniti nella regione. Pochi mettono in dubbio il ruolo svolto da Washington nel pilotare la destituzione di Dilma Rousseff. Le compagnie petrolifere Usa da tempo miravano al controllo del cosiddetto pré-sal, i ricchi giacimenti petroliferi sottomarini il cui sfruttamento era stato riservato, dai governi Lula e Rousseff, a Petrobras. E infatti una delle prime decisioni del presidente illegittimo Temer è stata quella di aprire lo sfruttamento di tali risorse alle imprese private transnazionali. Intanto proseguono le trattative per la cessione agli Stati Uniti della base spaziale di Alcântara, nello Stato di Maranhão, tra l’opposizione delle popolazioni locali.

Analoga situazione in Argentina, dove Mauricio Macri sta consegnando il paese nelle braccia di Washington. A fine marzo è stato reso noto il progetto per l'acquisto di armamenti dagli Usa al costo di oltre due miliardi di dollari: aerei da caccia, elicotteri, blindati, lanciagranate, lanciamissili destinati alla lotta contro il terrorismo. Il governo ha cercato di negare, poi ha sostenuto che non di acquisto si trattava, ma di "donazione". Già agli inizi di quest'anno si era appreso della fornitura, da parte di Israele, di materiale navale e sofisticate attrezzature di vigilanza per 80 milioni di dollari. Va poi segnalato il patto di cooperazione militare tra l’Argentina e la National Guard dello Stato della Georgia, che consente ai militari statunitensi di prendere decisioni anche senza il consenso delle forze armate locali. La National Guard fa parte delle forze speciali del Southern Command da cui dipende anche la Quarta Flotta, che dal 2008 è tornata in attività nel "cortile di casa".

A tutto questo vanno aggiunti gli accordi militari firmati da Macri con Obama, che prevedono tra l’altro l’assistenza nella zona della Triple Frontera (con il suo Acuifero Guaraní, tra le maggiori riserve mondiali d’acqua dolce), il coordinamento di missioni in Africa, la cooperazione di forze di sicurezza e controspionaggio. Sono poi avviate le trattative per l’insediamento di due basi statunitensi in territorio argentino, una delle quali nella Terra del Fuoco. Senza contare l’atteggiamento conciliante del governo di Buenos Aires verso la Gran Bretagna, che sta ampiamente militarizzando le isole Malvinas anche con l’invio di sottomarini nucleari, nonostante il Trattato di Tlatelolco del 1969 dichiari l’America Latina e i Caraibi zona denuclearizzata.

Con le basi già esistenti in Colombia, Paraguay, Perù, Cile (Fuerte Aguayo, inaugurata nel 2012 sotto il governo Piñera), Guyana, Guyana Francese (base Nato) e quelle in fase di realizzazione Washington sta in pratica mettendo sotto assedio i paesi considerati ostili: tra questi l'Ecuador che nel 2009, su decisione del presidente Correa, ha "sfrattato" da Manta le forze Usa. Certo nel nuovo millennio la presenza militare è spesso mascherata da lotta contro il terrorismo e il narcotraffico o addirittura da aiuto umanitario, come sta avvenendo in Perù dove alla fine dello scorso anno è stata decisa l’installazione di un nuovo presidio in Amazzonia allo scopo di fronteggiare “disastri naturali”.

8/4/2017


Argentina, la protesta scende in piazza

L'Argentina si è mobilitata contro il governo Macri. In poche settimane centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per dire no a una politica economica che sta provocando aumento della disoccupazione e della povertà, crollo della produzione industriale e fallimento di piccole e medie aziende. Il 6 marzo 80.000 insegnanti in sciopero hanno dato vita a un combattivo corteo, all'inizio di un'astensione dal lavoro di 48 ore. Il giorno successivo oltre 400.000 dimostranti hanno partecipato alla manifestazione indetta dalla Cgt, la Confederación General del Trabajo, e appoggiata da Cta Autónoma e Cta de los Trabajadores (le due centrali sono peraltro in fase di unificazione). Ma i dirigenti sindacali della Cgt sono stati duramente contestati quando nei loro discorsi non hanno voluto fissare la data dello sciopero generale chiesto a gran voce dai lavoratori. E l'8 marzo una marea interminabile di donne ha attraversato il centro di Buenos Aires al grido di: Sí se puede/sí se puede/el paro a Macri/se lo hicimos las mujeres. Altre decine di migliaia di donne hanno manifestato nel resto del paese.

Nuove mobilitazioni hanno avuto luogo una settimana dopo: di fronte all'aggravarsi della crisi, movimenti sociali e organizzazioni di disoccupati hanno effettuato decine di blocchi stradali e realizzato 300 ollas populares, mentre gli insegnanti scendevano nuovamente in sciopero. E ancora la settimana successiva 400.000 maestri e professori sono stati protagonisti a Buenos Aires di una grande Marcha Federal Educativa, per ottenere l'avvio di trattative contrattuali su base nazionale e per difendere la scuola pubblica.

Appoggio agli insegnanti in lotta è stato proclamato anche durante la manifestazione "per la memoria, la verità e la giustizia", nell'anniversario del golpe del 24 marzo 1976. Una folla mai vista, che ha cominciato a sfilare dalle prime ore della mattina, ha riempito il centro della capitale per condannare la più sanguinaria dittatura della storia argentina, ma anche per ribadire che il programma economico macrista ha gli stessi obiettivi di quello imposto dal regime militare: colpire i diritti dei lavoratori, aumentare in maniera sconsiderata il debito estero e allinearsi con la politica degli Stati Uniti e del Fondo Monetario Internazionale.

Il 30 marzo le due Cta hanno occupato Plaza de Mayo per una nuova massiccia protesta contro l'attuale modello economico e per confermare la loro adesione allo sciopero nazionale di 24 ore, finalmente proclamato dalla Cgt per il 6 aprile. Lo sciopero, il primo contro il governo Macri, ha visto un'altissima partecipazione sorprendendo gli stessi promotori. Da parte dell'esecutivo la risposta è stata una violenta repressione dei picchetti e il tentativo di minimizzare la portata dell'astensione dal lavoro. Ma il paro si è sentito con forza in tutto il paese, paralizzando le attività produttive e mostrando la realtà di un malcontento diffuso.

7/4/2017


Ecuador, Lenín Moreno è il nuovo presidente

Lenín Moreno, candidato di Alianza País, è il nuovo presidente dell'Ecuador. Il 2 aprile ha sconfitto al secondo turno, con il 51 per cento dei consensi, le proposte neoliberiste dell'ex banchiere Guillermo Lasso, della coalizione di destra Creo-Suma. "Alla fine del mio mandato voglio poter dire che è stata sradicata la denutrizione infantile, l'estrema miseria, la corruzione e la mancanza di imprenditoria giovanile", ha dichiarato il vincitore, che ha poi ringraziato Rafael Correa "per essere stato il leader con il quale il popolo ecuadoriano ha recuperato fiducia e orgoglio nazionale".

La vittoria è stata proclamata ufficialmente dalle autorità del Consejo Nacional Electoral e la regolarità delle consultazioni è stata confermata dagli osservatori internazionali dell'Unasur, dell'Oea e dell'Unión Interamericana de Organismos Electorales. Nonostante questo, Lasso continua a non riconoscere il risultato e a denunciare presunti brogli, invitando i suoi sostenitori a scendere in piazza. Ma i suoi appelli cadono sempre più nel vuoto: dopo i primi momenti di mobilitazione, la situazione a Quito è tornata sostanzialmente tranquilla.

Vicepresidente di Rafael Correa dal 2007 al 2013, Moreno è molto noto a livello internazionale per la sua lotta a favore delle persone con handicap (lui stesso ha perso l'uso delle gambe dopo essere stato colpito dal proiettile di un malvivente): su questo tema è stato a lungo inviato speciale del segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon. Per un soffio non aveva vinto al primo turno, il 19 febbraio. Aveva staccato Lasso di oltre dieci punti percentuali, ma non aveva raggiunto il 40% necessario per essere eletto alla massima carica, fermandosi al 39,35%. L'esito del ballottaggio non era scontato perché Lasso poteva contare sul sostegno di Cynthia Viteri del Partido Social Cristiano, giunta terza con il 16%, che aveva invitato i suoi elettori ad appoggiare la candidatura del miliardario. Quanto al socialdemocratico Paco Moncayo, quarto con il 6,7%, non aveva dato indicazioni di voto.

Gli ecuadoriani hanno comunque voluto garantire la continuità della politica di Correa, premiando le realizzazioni dell'ultimo decennio: la diminuzione della povertà e la riduzione drastica delle disuguaglianze, le decine di migliaia di anziani che godono di una pensione da cui in precedenza erano esclusi e di bambini che hanno potuto abbandonare il lavoro e incominciare ad andare a scuola, la costruzione di nuovi ospedali e nuove scuole, le opere pubbliche che hanno trasformato il paese: strade, ponti, gallerie, aeroporti.

Guillermo Lasso è stato tra i responsabili e tra i grandi beneficiati della crisi del 1999, che mise sul lastrico centinaia di migliaia di persone e portò il paese ad abbandonare la moneta nazionale per il dollaro: in quell'anno era infatti ministro dell'Economia e dell'Energia del governo Mahuad. In seguito fu ambasciatore itinerante sotto Lucio Gutiérrez, il presidente eletto con un discorso progressista e che poi portò avanti una politica di totale allineamento a Washington e venne cacciato da una rivolta popolare.

Il 19 febbraio gli elettori erano stati chiamati anche a rinnovare l'Asamblea Nacional, in cui Alianza País ha conquistato 74 seggi su 137, e a pronunciarsi in un referendum sul divieto di esercitare cariche pubbliche a chi detenga fondi nei cosiddetti paradisi fiscali. La vittoria del sì con il 54,9% dei voti segna un importante passo avanti nella lotta per una maggiore trasparenza della politica. Come ha sottolineato Alex Cobham, della ong Tax Justice Network, questo provvedimento "dà a una società un livello di protezione contro l'utilizzo di giurisdizioni segrete da parte delle élites e dei politici. E aiuta a fondare l'idea che l'uso del segreto finanziario sia una forma di corruzione che dobbiamo eliminare". Proprio l'Ecuador, presidente pro tempore del G77 più Cina (il gruppo delle Nazioni Unite che riunisce i paesi in via di sviluppo), sta attualmente promuovendo la creazione di un organismo sovranazionale per eliminare i paradisi fiscali.

4/4/2017


Colombia, assassinata leader comunitaria

Gli squadroni della morte sono tornati a colpire. Il 2 marzo è stata assassinata a Medellín la giovane leader comunitaria Alicia López Guisao. Appartenente al movimento di sinistra Congreso de los Pueblos, Alicia partecipava alla realizzazione del progetto Cumbre Agraria nel dipartimento del Chocó. Nello stesso giorno è stato ucciso Fabián Antonio Rivera, presidente di una junta comunal di Bello, città nei pressi di Medellín. E il 5 marzo sono caduti sotto il piombo dei sicari prima José Antonio Anzola e, due ore dopo, la sorella Luz Angela. Entrambi erano membri del Partido Comunista e del Sindicato de Trabajadores Agrícolas Independientes del dipartimento del Meta. Nei primi due mesi dell'anno in corso si erano già contate 25 vittime. Tra queste la dirigente comunitaria di Yarumal (dipartimento di Antioquia), Luz Herminia Olarte, e il presidente della Junta de Acción Comunal di Esmeraldas (Cauca), Faiver Cerón Gómez.

Nel frattempo l'attuazione degli accordi di pace incontra mille ostacoli. Il 18 febbraio i guerriglieri delle Farc hanno ultimato il concentramento nelle zone stabilite per la consegna delle armi e la preparazione al rientro nella vita civile. Ma in molti casi non hanno trovato sul posto le strutture destinate ad accoglierli, il cui allestimento era compito del governo. Come afferma in un'intervista a Página/12 il comandante Jesús Santrich, "noi abbiamo dimostrato la nostra volontà di pace, per esempio abbiamo tenuto fede agli impegni riunendo i nostri combattenti. Vi è però una serie di mancati adempimenti da parte governativa che potrebbero continuare a ritardare tutto. In ogni modo ricordiamo la cosa più importante: oggi non c'è uno spiegamento strategico militare. Non ci sono più azioni di guerra".

Con lentezza procede anche l'applicazione dell'amnistia nei confronti dei militanti delle Farc tuttora in carcere. "Su 400 indulti in corso (che furono sollecitati prima della Ley de Amnistía) ci sono solo 150 risoluzioni, ma in libertà non abbiamo ancora un centinaio di guerriglieri - sottolinea ancora Santrich - Così si sta mettendo a rischio la volontà della gente. E la riforma agraria integrale non è neppure cominciata". Elemento ancora più preoccupante: da più parti si denuncia l'avanzata di gruppi paramilitari nei territori un tempo occupati dalla guerriglia. Insieme all'elenco interminabile di omicidi che le autorità continuano a definire "crimini passionali" o "vendette personali", questo fa temere una riedizione del genocidio di cui furono vittime, negli anni Ottanta e Novanta, migliaia di membri dell'Unión Patriótica.

6/3/2017


L'America Latina nell'era Trump

Le mosse con cui Donald Trump ha inaugurato la sua presidenza hanno sconvolto il mondo politico del continente. Il primo scossone è venuto con il ritiro degli Stati Uniti dal Tpp (Trans-Pacific Partnership), accordo che gli Usa avevano sottoscritto nell'ottobre 2015 soprattutto per bilanciare l'influenza cinese nella regione. Dei dodici paesi aderenti, tre erano latinoamericani: Messico, Perù e Cile. Anche Santiago, dopo l'annuncio di Washington, ha deciso di lasciare il blocco.

Per l'America Latina l'abbandono statunitense "apre uno scenario di incertezza crescente sulla possibile sopravvivenza di istanze come l'Alianza del Pacífico", scrive Juan Manuel Karg su Página/12. Secondo il politologo, vengono così a galla i limiti del recente avvicinamento a quella stessa alleanza da parte di Argentina e Brasile: "Per Macri, che per tutto l'anno scorso ha insistito sui benefici dell'associarsi al blocco di paesi composto da Messico, Colombia, Perù e Cile, la notizia è un colpo enorme, che parla della poca competenza nelle relazioni internazionali del governo in carica: si è preparato per un mondo che non esiste, mosso dall'ideologia anziché dall'esatta comprensione dei processi in corso".

Un contraccolpo negativo per l'economia di Buenos Aires è poi venuto dalla misura adottata dalla nuova amministrazione Usa contro l'importazione di limoni argentini: il provvedimento mira a proteggere i produttori statunitensi. Solo una settimana prima Macri, riferendosi al nuovo inquilino della Casa Bianca, aveva affermato fiducioso: "Non credo che le sue politiche protezionistiche ci danneggeranno".

Ma è il Messico il bersaglio principale di Donald Trump, che ha già firmato l'ordine esecutivo per la costruzione di un muro antimigranti lungo gli oltre 3.000 chilometri di frontiera (in realtà un terzo del confine è già protetto da imponenti barriere, iniziate durante il mandato di Clinton e proseguite da Bush e Obama). Di fronte alla pretesa che sia il Messico stesso a pagare le spese dello sbarramento Peña si è visto costretto, per salvare la faccia, a cancellare il viaggio a Washington fissato per fine mese.

Il previsto contatto tra i due capi di Stato si è dunque limitato a un colloquio telefonico il 27 gennaio, che secondo i comunicati ufficiali si è svolto in tono amichevole. Ben diversa la versione della giornalista Dolia Estévez, che ha avuto accesso a parte della telefonata e che ha parlato di una conversazione "molto offensiva, nel corso della quale Trump ha umiliato Peña Nieto". "Non ho bisogno dei messicani, non ho bisogno del Messico, costruiremo il muro e voi lo pagherete, che vi piaccia o no": queste le parole del presidente Usa nel resoconto di Estévez. E se i militari messicani non sono in grado di combattere il narcotraffico, ha detto ancora Trump, invierà lui stesso le truppe per portare a termine il compito: in pratica una minaccia di invasione. Di fronte al violento e inaspettato attacco pare che Peña sia riuscito solo a balbettare frasi banali sul desiderio di rapporti costruttivi con il potente vicino.

La rivelazione del vero tenore della telefonata ha fatto precipitare ancora di più il tasso di popolarità di Peña Nieto, già ai minimi storici. Al presidente viene rimproverata la mancata difesa della dignità nazionale, un'accusa che rischia di porre in serie difficoltà il Pri alle prossime elezioni presidenziali del 2018. E nel paese ha sempre più successo la campagna che invita a comperare prodotti Hechos en México, come risposta al protezionismo del nord.

In realtà quello dell'amministrazione Trump è un cambiamento di tono solo formale, scrive Carlos Herrera de la Fuente su Aristegui Noticias: "Gli Stati Uniti non sono mai stati benevoli con il Messico. Hanno sempre usato e abusato della loro superiorità economica, politica e militare sul nostro paese. Il fatto che negli ultimi decenni abbiano utilizzato un linguaggio più amichevole per riferirsi alle questioni bilaterali non ha mai significato che la loro politica reale verso il Messico sia stata autenticamente amichevole. Nonostante ciò che ancora si azzardano a dire i vergognosi difensori del Tlc, questo è stato e continua a essere uno strumento commerciale degli Usa per distruggere la nostra economia e sottometterla, integrandola, alla loro logica imperialista. Per il resto la cosiddetta amicizia (parola che tanto amavano usare i Clinton e i Bush) non è stata neppure ragione sufficiente per fermare le massicce deportazioni di immigrati, la costruzione effettiva del muro, la violazione costante della nostra sovranità nazionale attraverso l'illegale cooperazione poliziesca e militare e l'imposizione di una tragica guerra contro il narcotraffico che ha provocato al paese centinaia di migliaia di morti".

La preoccupazione per la nuova politica di Washington è stata al centro del V Vertice della Celac, la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños. Il presidente dell'Ecuador, Rafael Correa, ha invitato ad "assumere una chiara posizione in difesa degli immigrati non solo dell'America Latina e dei Caraibi": la soluzione al problema dell'immigrazione non sono muri o frontiere, ciò che serve "è la solidarietà, è l'umanità e la creazione di condizioni di benessere e di pace per tutti gli abitanti del pianeta". All'incontro, che si è svolto il 24 e 25 gennaio, non hanno partecipato l'argentino Macri e il golpista brasiliano Temer. Al termine dei lavori la presidenza temporanea del blocco è passata dalla Repubblica Dominicana al Salvador.

Anche il segretario generale dell'Unasur, il colombiano Ernesto Samper, ha criticato l'iniziativa di Trump: "Esprimo la mia opposizione alla decisione provocatoria adottata dal nuovo presidente degli Stati Uniti di imporre al popolo messicano l'obbligo umiliante di pagare l'ancor più umiliante muro che si pretende di costruire, per separare fisicamente gli Stati Uniti e il Canada dal Messico e dall'America Latina".

5/2/2017


Messico, in piazza contro il gasolinazo

"Non si arresta in Messico la protesta contro il gasolinazo, l'aumento del prezzo dei combustibili scattato il primo gennaio. Il provvedimento è stato giustificato dal presidente Peña Nieto con la necessità di mantenere la stabilità economica e con le conseguenze dell'incremento dei prezzi internazionali (nonostante le ricchezze petrolifere del Messico, benzina e diesel vengono in gran parte importati). Tali spiegazioni non sono servite a calmare l'indignazione popolare: tutti i giorni si registrano manifestazioni, occupazioni di stazioni di servizio e di caselli autostradali, cortei e blocchi dei trasporti. Incidenti e scontri con la polizia hanno provocato sei morti e migliaia di arresti.

La stampa ha dato grande risalto al saccheggio di negozi e supermercati, ma secondo padre Alejandro Solalinde, il fondatore del ricovero per migranti Hermanos en el Camino, queste azioni sono generalmente orchestrate dal governo, che mira così a criminalizzare il movimento sociale. "È chiaro che la gente ha bisogno, ma altre persone saccheggiano in modo molto pianificato e strategico: si vede lo stesso modus operandi", afferma Solalinde in un'intervista apparsa su La Jornada dell'8 gennaio.

L'ultimo aumento è stato solo il detonatore di un ben più profondo malcontento, legato alla grave crisi economica del paese. Nei quattro anni dell'attuale amministrazione il costo della benzina è cresciuto del 48% e il peso ha subito una svalutazione di oltre l'80% rispetto al dollaro. "C'è fame. Ora qualsiasi pretesto è buono per una rivolta sociale. Anche se il presidente Enrique Peña Nieto facesse marcia indietro con il gasolinazo, sarebbe troppo tardi - spiega Solalinde - La società è estremamente disperata di fronte a una classe politica tanto corrotta, tanto insensibile e tanto cieca da non riuscire a calcolare la dimensione di una sollevazione sociale".

Il rialzo di benzina e diesel, il più pesante degli ultimi anni, fa parte di una politica di liberalizzazione dei prezzi legata alla riforma energetica, varata proprio da Peña alla fine del 2013, che ha aperto agli investimenti privati nel settore. Con questa riforma - aveva promesso allora il capo dello Stato - Pemex e Cfe (la Comisión Federal de Electricidad) "si rafforzano e si modernizzano, saranno imprese produttive dello Stato, efficienti, con la capacità e la flessibilità necessarie ad adempiere alla loro funzione a beneficio di tutta la società messicana". Il presidente aveva aggiunto che il cambiamento avrebbe avuto riflessi positivi sul portafoglio della popolazione, abbassando i costi di luce e gas. È successo esattamente il contrario.

Nonostante la repressione e gli arresti, le mobilitazioni continuano. Domenica 22 gennaio centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in 22 Stati, dalla Baja California al Chiapas, ripetendo ovunque lo stesso slogan: Fuera Peña. Come aveva previsto Padre Solalinde, "questo movimento sociale è diverso dai precedenti; non credo che si estinguerà tanto facilmente, non credo che la gente ceda alla campagna di paura e di terrore che questo malgoverno tenta di imporre. La gente non ne può più".

23/1/2017


Otto ergastoli a Roma per il Plan Cóndor

Otto condanne al carcere a vita, 19 assoluzioni e sei proscioglimenti per morte degli imputati. Questa la sentenza pronunciata il 17 gennaio dalla Terza Corte d’Assise di Roma al lungo processo per la scomparsa di 43 oppositori (molti di origine italiana), sequestrati nell'ambito del Plan Cóndor in diversi paesi dell’America Latina tra il 1973 e il 1978. L'accusa aveva chiesto 27 ergastoli.

Le opinioni sulla sentenza non sono univoche. "Per Jorge Ithurburu, infaticabile presidente dell'Associazione 24 marzo - scrive Geraldina Colotti su il manifesto - si è trattato di un risultato altamente positivo nel suo complesso, che per la prima volta ha evidenziato l'articolazione della rete criminale nelle sue responsabilità e diramazioni". Positivo anche il parere dell’Associazione Progetto Diritti, di cui fanno parte gli avvocati Arturo Salerni e Mario Angelelli, legali di molte parti civili: la sentenza costituisce "un passaggio di grande rilevanza sul piano del giudizio storico e delle responsabilità giuridiche". Ma secondo i familiari delle vittime "non è stata fatta giustizia". Giudizio condiviso dal linguista e attivista politico statunitense Noam Chomsky, per il quale la decisione dei giudici romani "non è una risposta sufficiente rispetto all'enormità dei reati commessi". In particolare Chomsky sottolinea una lacuna fondamentale, il fatto che non sia stato menzionato il ruolo degli Stati Uniti nella costruzione di questa rete terroristica di Stato.

La pena dell'ergastolo è stata comminata ai cileni Hernán Jerónimo Ramírez e Rafael Ahumada Valderrama, all'uruguayano Juan Carlos Blanco, ai boliviani Luis García Meza e Luis Arce Gómez, ai peruviani Francisco Morales Bermúdez, Pedro Richter Prada e Germán Ruiz Figueroa. Tutti gli imputati sono stati però giudicati in contumacia: assolto l'unico presente in aula, l'ex membro dei servizi segreti uruguayani e ora cittadino italiano Jorge Néstor Troccoli.

19/1/2017

Latinoamerica-online.it

a cura di Nicoletta Manuzzato