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Brasile L'8 gennaio e le sue conseguenze (22/1/2023)
Colombia Tregua bilaterale senza l'Eln (6/1/2023)
Venezuela Finisce l'era della "presidenza" Guaidó (8/1/2023)
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Brasile, l'8 gennaio e le sue conseguenze Le immagini di migliaia di persone che nel pomeriggio di domenica 8 gennaio invadevano, senza che nessuno sbarrasse loro la strada, il Congresso, il Palácio do Planalto (sede della Presidenza) e il Supremo Tribunal Federal hanno fatto temere per qualche ora il crollo della democrazia brasiliana. L'orda bolsonarista, confluita nella capitale a bordo di decine di autobus, ha scatenato la sua furia contro suppellettili e opere d'arte, mostrando il suo disprezzo per ogni forma di cultura. A favorire l'assalto le autorità del Distretto Federale, governato da un alleato dell'ex presidente, che hanno lasciato i tre edifici sguarniti. Il tentato colpo di Stato mirava a far sì che, di fronte al caos, Lula decretasse l'intervento dei militari in funzione di sicurezza interna, lasciando loro il compito di "riportare l'ordine". Il piano è fallito perché il presidente ha invece scelto di assumere il controllo del governo e della polizia locali. Agenti federali hanno sgomberato i palazzi occupati, arrestando centinaia di persone. La contromossa è stata vincente anche su un altro piano: tornato velocemente nella capitale, Lula ha patteggiato l'evacuazione dei sediziosi accampati da settimane di fronte al quartier generale dell'esercito, a cui chiedevano di intervenire per ribaltare l'esito del voto del 30 ottobre. Dopo alcune obiezioni, i generali hanno dovuto cedere e permettere che i circa 1.200 facinorosi venissero trasportati a una sede della polizia federale per essere interrogati. Un punto a favore del ministro della Giustizia Flavio Dino, fautore di una risposta dura, mentre il titolare della Difesa, il conservatore José Múcio, proponeva una soluzione concordata che trattasse gli insorti come semplici manifestanti. Sono contraddizioni all'interno del vasto gabinetto di Lula (ben 37 membri) dove, accanto a Marina Silva all'Ambiente, a Fernando Haddad alle Finanze e a Sônia Guajajara al nuovo Ministero dei Popoli Indigeni, figurano esponenti del centrodestra come Simone Tebet alla Pianificazione. L'8 gennaio ha visto così un indebolimento dell'ex presidente, anche perché i sondaggi mostrano una stragrande maggioranza di cittadini (di tutti gli schieramenti) critici di fronte alle devastazioni causate dai suoi seguaci. E altre tegole si abbattono sul capo di Bolsonaro, ancora rifugiato in Florida: i suoi conti bancari sono stati congelati e la Procura Generale ha ottenuto dal Supremo Tribunal Federal l'apertura di un'indagine su di lui come presunto istigatore dell'assalto ai palazzi del potere. Infine il suo uomo di fiducia, Anderson Torres, ex titolare della Sicurezza Pubblica della capitale, è stato arrestato per complicità. Nell'abitazione di Torres gli inquirenti hanno rinvenuto la bozza di un progetto in cui Bolsonaro assumeva il controllo delle istituzioni elettorali e dichiarava nullo il risultato delle presidenziali. E a seguito della sommossa Lula ha destituito i dirigenti dei media pubblici, che erano stati nominati nella gestione precedente e che avevano presentato il tentato golpe come una dimostrazione di dissenso. La giornalista Kariane Costa sarà la nuova presidente della Empresa Brasil de Comunicação. Silurato anche il comandante dell'esercito Júlio César de Arruda: non avrebbe agito con prontezza di fronte alla connivenza di alcuni settori militari con il tentativo eversivo. Altri quaranta membri delle forze armate, che prestavano servizio nella residenza presidenziale, sono stati destinati ad altri incarichi. Intanto Celine Leão, che ha assunto il governo ad interim del Distretto Federale dopo la sospensione del governatore Ibaneis Rocha, ha deciso di raddoppiare gli agenti che dovranno vigilare le sedi dei tre poteri. Non si escludono infatti altri tentativi da parte dei fanatici sostenitori dell'ex capitano. 22/1/2023 |
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Venezuela, finisce l'era della "presidenza" Guaidó Con 72 voti a favore, 29 contrari e otto astensioni l'opposizione ha scritto la parola fine all'autoproclamata presidenza ad interim di Juan Guaidó. Lo hanno deciso il 30 dicembre i membri del vecchio Parlamento del 2015 (gli antichavisti non riconoscono il risultato delle consultazioni del 2020, dove hanno perso la maggioranza). La decadenza di Guaidó dal suo effimero ruolo è diventata effettiva il 5 gennaio: una conclusione ingloriosa, dopo quattro anni in cui non è riuscito a scalzare le autorità legittime e si è solo contraddistinto per una serie di scandali e di ruberie. Creato nel gennaio 2019, il governo provvisorio era stato riconosciuto da oltre cinquanta Stati, Usa in testa. Ma il vasto appoggio politico di cui inizialmente godeva è andato sempre più diminuendo. Il riavvicinamento tra Caracas e Bogotá, dopo l'elezione del nuovo presidente colombiano Gustavo Petro, è proseguito in gennaio con l'inaugurazione del ponte Atanasio Girardot che unisce i due paesi e la riunione imprevista, nella capitale venezuelana, tra i due capi di Stato. "Un incontro ampio e molto fruttuoso", l'ha definito Maduro su Twitter. "Viva l'unione tra Colombia e Venezuela", gli ha fatto eco Petro. Anche il Brasile ha riallacciato i rapporti con il governo bolivariano, dopo l'intermezzo del mandato di Bolsonaro. Lula aveva già anticipato che questo sarebbe stato uno dei suoi primi provvedimenti e in occasione del suo insediamento è stato revocato il decreto che impediva l'entrata nel paese di Maduro e di altri funzionari venezuelani. Da Washington non si è registrata alcuna reazione all'eliminazione della figura del "presidente incaricato", ma la crisi energetica provocata dal conflitto in Ucraina aveva indotto già in marzo gli Stati Uniti a inviare a Caracas una delegazione per negoziare alternative al blocco delle forniture russe. In novembre l'amministrazione Biden, pur senza revocare le sanzioni, aveva autorizzato la Chevron a riprendere parzialmente l'attività di estrazione del petrolio in Venezuela. La decisione statunitense era venuta dopo la ripresa del dialogo tra il governo Maduro e un settore dell'opposizione. L'incontro, avvenuto in Messico con la mediazione della Norvegia, aveva portato alla firma di un accordo in cui le parti si impegnavano ad attivarsi in tutti i modi per "ottenere i fondi legittimi della Repubblica che si trovano congelati nel sistema finanziario internazionale". Tali fondi saranno amministrati dalle Nazioni Unite e utilizzati per progetti sociali. L'accordo testimonia la spaccatura all'interno dei partiti antichavisti che pure cercheranno, attraverso le primarie, di presentare un candidato unico alle presidenziali del 2024. 8/1/2023 |
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Colombia, tregua bilaterale senza l'Eln Aveva suscitato grandi speranze l'annuncio, fatto dal presidente Gustavo Petro pochi minuti prima della fine del 2022, dell'accordo per una tregua di sei mesi raggiunto con l'Ejército de Liberación Nacional, due dissidenze delle Farc e due gruppi paramilitari. "Abbiamo accordato una cessazione bilaterale con l'Eln, la Segunda Marquetalia, l'Estado Mayor Central, le Autodefensas Gaitanistas de Colombia e le Autodefensas de la Sierra Nevada dal primo gennaio al 30 giugno 2023, prorogabile in base ai progressi dei negoziati", aveva detto il capo dello Stato in un significativo passo avanti nel suo obiettivo politico di "pace totale". Dopo l'annuncio il ministro della Difesa, Iván Velázquez, aveva assicurato l'appoggio delle forze armate e Rodrigo Londoño, leader di Comunes (il partito nato dalla smobilitazione delle Farc), aveva invitato i combattenti coinvolti ad agire con decisione: "La pace richiede coraggio, audacia ed eroismo. Ma soprattutto amore verso il popolo". È infatti la popolazione civile a soffrire le conseguenze più drammatiche del conflitto. A smorzare gli entusiasmi è sopraggiunto il 3 gennaio un comunicato dell'Ejército de Liberación Nacional, che nega l'esistenza di un accordo con il governo. "In diverse opportunità - sostiene il gruppo guerrigliero - abbiamo segnalato che l'Eln compie solo ciò che si discute e si concorda al tavolo del negoziato cui partecipiamo". E lì, insiste il comunicato, "non è stata discussa nessuna proposta di cessazione del fuoco bilaterale". Per ora dunque non ci sarà nessuna sospensione delle ostilità tra l'esercito di Bogotá e l'Eln. Quest'ultimo comunque non ha chiuso la porta al dialogo, anzi nel suo documento segnala di voler discutere un'eventuale tregua nel prossimo ciclo di conversazioni, il cui inizio è previsto per il 23 gennaio in Messico. I negoziati tra il governo Petro e i dirigenti dell'Eln erano iniziati ufficialmente a Caracas in novembre, alla presenza delle delegazioni di Cuba e Norvegia come paesi garanti. Questo primo round di colloqui era terminato il 12 dicembre con accordi parziali, tra cui un patto umanitario per consentire il ritorno alle loro case di centinaia di famiglie sfollate. 6/1/2023 |
a cura di Nicoletta Manuzzato |